Cittadinanza e Ius scholae urge un dibattito senza approcci ideologici, di Ennio Triggiani

Il dibattito su cittadinanza e «Ius Scholae» (a favore dei giovani immigrati che hanno compiuto un ciclo scolastico in Italia) ci fa ricordare che la nostra Presidente del Consiglio parla dell’Italia non come Paese o Stato ma, preferibilmente, come «Nazione». Non che tale qualificazione sia scorretta in quanto la stessa Costituzione ad essa si riferisce come nell’art. 67: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato» ma anche, con vario rilievo (comprendendo l’aggettivo «nazionale»), negli artt. 9, 11, 16, 49, 87, 98, 117, 120, 126.
Tuttavia, la scelta da parte della Presidente ha un evidente significato politico, se non ideologico, in quanto tende a legare strettamente il concetto di cittadinanza a quello di nazionalità. Su questa identificazione, personalmente, nutro seri dubbi. La cittadinanza è frutto di un percorso politico-giuridico, storicamente mutevole, non necessariamente legato al concetto di nazionalità.
Quest’ultima, infatti, si determina attraverso il lungo sedimentarsi di storia, cultura, religioni, tradizioni, lingue, abitudini, contributi narrativi plurimi in un complesso intrecciarsi di esperienze, retaggi, sentimenti.
Volendo soffermarci sulla «nazione italiana», essa non è che la progressiva e mutevole sintesi di tantissimi popoli e culture differenti considerato che la penisola italica è stata oggetto di invasioni e insediamenti i più diversi. Non siamo tutti bruni e con gli occhi marrone e i nostri dialetti ancor oggi evidenziano l’origine da un vasto pluralismo linguistico.
Certo, oggi qualifichiamo come cittadini italiani (ma alcuni lo fanno con enorme difficoltà) donne e uomini di pelle scura ma solo perché negli ultimi decenni per la prima volta siamo divenuti Paese non più di emigrazione ma di immigrazione ed abbiamo avuto una «invasione» (si fa per dire) non armata dal Sud del mondo in cerca di lavoro e non di conquiste.
Anche se, volendo tornare indietro nel tempo, non dimentichiamo che l’Impero romano era formato da donne e uomini di ogni fattezza, tutti cittadini romani. Ed esistono oggi Stati plurinazionali, come Belgio, Regno Unito e Svizzera.
È qui la differenza. L’inesattezza storica e l’errore politico consistono proprio nell’identificazione dei due concetti. Il primo, la nazione, si sviluppa, e così facendo si modifica, nel corso di secoli mentre il secondo, la cittadinanza, ha storia di solito recente ed è frutto di precise e contingenti scelte politiche.
Faccio un esempio. Sappiamo che esiste la cittadinanza europea, istituita con il Trattato di Maastricht del 1992, conferita sul presupposto del possesso di quella di uno Stato membro dell’Unione, e da essa derivano una serie di specifici diritti e doveri. Alcuni di questi possono essere fatti valere nei confronti dell’Unione, altri, in particolare il diritto di libera circolazione e di soggiorno, rispetto agli Stati membri (quale l’elettorato attivo e passivo nelle elezioni amministrative per i cittadini di altro Stato membro residenti in un Comune). E la Corte di giustizia dell’Unione ha già affermato che «lo status di cittadino dell’Unione è destinato ad essere lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri» (sentenza Grzelczyk).
È evidente che abbiamo una nozione di cittadinanza difficilmente ascrivibile a quella di «nazione europea» che è ancora, nonostante tutto, difficilmente riconoscibile.
Pertanto, l’utilizzazione del termine «nazione» in luogo di «Paese» o «Stato» sembra contenere il messaggio implicito di considerare italiane le persone riconducibili a una omogenea e comune qualità storicamente e politicamente comune nella sua originarietà. Certo, nessun politico avveduto può chiudere entrambi gli occhi di fronte alla realtà tanto più se, ad esempio, questa è suffragata da successi sportivi merito di donne e uomini che qualcuno definì molto «abbronzati».
Tuttavia, è sempre possibile rendere più complesso e lungo l’iter per l’acquisizione della cittadinanza italiana tanto più se disancorato da un percorso di integrazione sociale.
Abbiamo allora la palese contraddizione di cittadini italiani riconosciuti tali in base alle loro origini ma che spesso non hanno mai messo piede nel nostro Paese ed altri, come gli immigrati di seconda generazione, che parlano l’italiano magari meglio di quelli considerati «puri» ma devono patire a lungo il senso di estraneità.
Rispetto allo «ius soli», basato sul semplice requisito della nascita sul nostro territorio (eppure nazione deriva dal latino «nasci», nascere), lo «Ius scholae» comunque evidenzia un radicamento culturale e sociale nel nostro Paese e costituisce altresì un incentivo per gli immigrati ad investire sull’istruzione dei loro figli. Si tratta di un atto di giustizia, di civiltà e di democrazia, come ha giustamente detto il vicepresidente della Cei mons. Savino.
Se ci si liberasse da strumentali approcci ideologici si servirebbe molto meglio l’interesse del nostro Paese (o Nazione?).

(Socio CuF)

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