C’era un tempo in cui la globalizzazione sembrava un destino ineludibile. Le sorti magnifiche e progressive. C’era chi definiva “la fine della storia” la vittoria della coppia capitalismo e democrazia rispetto a tutti i modelli alternativi. Le merci attraversavano i continenti, le persone inseguivano sogni oltreconfine, e la cooperazione internazionale pareva, almeno in teoria, la via maestra per affrontare le sfide comuni.
Poi è arrivata l’era delle “policrisi”: quella finanziaria del 2008, quella ambientale, la pandemia, le migrazioni, i conflitti armati ed ora una guerra commerciale globale. Il meccanismo si è inceppato. La cooperazione multilaterale viene subitaneamente sostituita dalla concorrenza strategica. Le prospettive sono molteplici e le possibili conseguenze davvero imprevedibili.
Vorrei qui, però, provare ad esplorare questo scenario adottando un punto visuale inusuale: quello dei beni comuni, dei commons; quei beni condivisi che non sono né pubblici né privati, ma custoditi attraverso gli sforzi collettivi di comunità che cooperano.
Durante la pandemia, in particolare, milioni di persone hanno scoperto quanto fosse essenziale ciò che prima era invisibile: la salute pubblica. Ma a fianco c’era l’aria pulita, l’acqua sicura, la partecipazione democratica, il paesaggio, la fiducia nelle istituzioni.
Avevamo scoperto il valore della cura condivisa: reti di solidarietà, orti urbani, piattaforme di mutuo aiuto. Piccoli esempi di commons che, in mezzo al caos, offrivano respiro.
Poi ci sono i global commons – l’atmosfera, gli oceani, la biodiversità, i dati, il cyberspazio – e questi non possono essere difesi a colpi di confini, perché i beni comuni globali hanno bisogno di istituzioni e politiche che si basano sulla fiducia e il rispetto a livello globale. Non serve privatizzare, statalizzare, regolamentare. Quando il presidente Trump ha annunciato, durante il suo incongruo “liberation day”, l’imposizione di dazi a livello mondiale, il messaggio è stato chiaro: “America First”. La cooperazione basata sulla fiducia cede il passo alla competizione e alla diffidenza tra potenze. Siamo ad un “liberi tutti” dove ogni Paese è incoraggiato a giocare solo per sé nonostante l’esperienza, anche la più recente, ci abbia ormai insegnato che nessuno si salva da solo.
Da tempo ci si interroga su come gestire i commons, risorse che sono vitali, da cui sempre più dipenderà la qualità della nostra vita. Per molto tempo si è creduto che solo lo Stato o il mercato potessero farlo. Poi è arrivata Elinor Ostrom, con i suoi studi sulle comunità che gestiscono risorse naturali in modo efficace, senza bisogno di gerarchie o incentivi monetari. Nel suo Governing the Commons scriveva che «né lo Stato né il mercato hanno un successo uniforme nel consentire agli individui di sostenere un uso produttivo a lungo termine dei sistemi di risorse naturali – e concludeva affermando che – non c’è motivo di credere che i burocrati e i politici, per quanto dotati di buone intenzioni, siano più bravi a gestire i commons di quanto non lo siano le persone sul posto».
Sono le comunità, quando messe in condizione di cooperare e decidere insieme, a essere le migliori custodi delle risorse di cui vivono. Questo vale per un bosco in Nepal, ma anche per una rete energetica cooperativa in Germania, per i pascoli montani del Trentino o per una piattaforma digitale autogestita a livello globale. I beni comuni non sono solo risorse, sono sistemi viventi creati e protetti attraverso le pratiche sociali del commoning, del vivere, produrre, preservare e beneficiare comunitariamente. Il bene comune non è semplicemente l’acqua o una rete wi-fi condivisa. È la relazione tra le persone e quella risorsa. È l’atto continuo del commoning, della gestione collettiva, della cura reciproca. Non è un oggetto, è un processo. Ma quando questo processo non viene riconosciuto, rischia di essere distrutto.
È quello che accade ogni giorno quando il suolo fertile viene venduto alle multinazionali, quando le foreste diventano zone estrattive, quando i dati personali vengono trattati come merce.
E non ci sono solo i beni comuni locali – fiducia, dibattito pubblico, paesaggio, conoscenza – ci sono anche i global commons: l’atmosfera, il cyberspazio, gli oceani, la biodiversità. Risorse che travalicano i confini, risorse essenziali per la sopravvivenza collettiva.
Ma chi li protegge oggi? Il cyberspazio si sta chiudendo in spazi recintati dove pochi gate-keeper esercitano poteri monopolistici. Lo spazio extra-atmosferico che viene privatizzato. Le grandi piattaforme digitali che sanno tutto di noi e detengono poteri che superano quelli di molti Stati. Laddove servirebbero strutture di cooperazione planetaria, vediamo solo frammentazione ed egoismi particolaristici. Ma davvero la cooperazione internazionale è stata soltanto un’illusione? Il sogno dell’Europa? Delle Nazioni Unite? Solo ingenue utopie? L’impressione è che l’utopia vera non sia tanto quella di colui capace di immaginare un mondo più unito, ma quella, invece, di chi crede che si possa andare avanti in questo modo.
Il messaggio profondo che ci viene dallo studio dei beni comuni è quello che ci spinge a immaginare istituzioni che partano dalla collaborazione e non dal dominio. In questa visione, i commons non sono l’eccezione, ma il cuore di un nuovo paradigma sociale, ecologico, economico. Un mondo in cui l’acqua non è solo un bene da privatizzare, ma un diritto da custodire insieme. Un mondo dove i dati non sono proprietà di pochi, ma infrastrutture comuni. Dove l’energia viene prodotta e condivisa da comunità locali e partecipative.
Serve un nuovo linguaggio e una nuova architettura politica. Serve una governance planetaria, dove anche le voci dei popoli indigeni, dei giovani, delle comunità locali abbiano spazio ed influenza. Servono istituzioni coraggiose che sappiano dire no allo sfruttamento privato selvaggio e sì alla cura condivisa. In un mondo che si spezza, la gestione collettiva dei beni comuni non è un lusso. È una necessità. È il filo rosso che può ricucire le fratture dell’economia, della politica e della natura. Possiamo scegliere se continuare sulla strada della frammentazione e della rivalità, o aprire nuovi spazi di co-creazione, cura e responsabilità condivisa. La politica dei commons non promette la salvezza, non garantisce stabilità. Costruisce speranza.
Da Avvenire dell’11 aprile 2025