La Grande Guerra del Medio Oriente, a lungo evocata e temuta, alla fine non è scoppiata. Ma dal focolaio acceso il 7 ottobre del 2023 a Gaza, le fiamme si sono allargate al modo dei cerchi creati da un sasso in uno stagno. Da Gaza a Israele alla Cisgiordania. Da Israele all’Iran. Dallo Yemen a Israele e in generale alle presenze occidentali nel Mar Rosso. Dall’Iran a Israele. Dall’Hezbollah libanese a Israele con la replica assai più micidiale dello Stato ebraico. E adesso la Siria, mai davvero uscita dalla guerra scoppiata nel 2011, con la possibilità che sia poi coinvolto anche l’Iraq, visto che ora milizie sciite irachene affluiscono verso il campo di battaglia siriano. E questo senza tener conto degli altri attori che popolano la scena: gli Stati Uniti che controllano l’area siriana ricca di petrolio intorno a Deir Ezzor, la Turchia insediata nel Nord della Siria, la Russia che dal 2015 tiene in piedi il regime di Bashar al-Assad.
L’improvvisa avanzata delle colonne degli islamisti di Heyet Tahrir al-Shams (già Jabat al-Nusra, già Al Qaeda) e del Fronte nazionale di liberazione riportano alla mente i mesi del 2014-2015, quando appunto solo l’intervento armato della Russia poté conservare ad Assad il palazzo presidenziale.
Oggi come allora, la mobilitazione di jihadisti e milizie filo-turche (che i media, curiosamente, chiamano “ribelli”) è troppo massiccia, organizzata e precisa per essere il frutto di un’iniziativa improvvisata. E oggi pare di scorgere dietro questo piano gli stessi padrini di allora. Le petromonarchie del Golfo Persico, che da sempre finanziano i jihadisti e che ora approfittano dei colpi già inferti da Israele per provare ad abbattere, attraverso i loro proxy, l’avamposto siriano dell’influenza iraniana. E la Turchia, che dal 2012 supporta i ranghi di quello che era l’Esercito libero siriano e ora si chiama Fronte nazionale di liberazione.
Il caso della Turchia è quello più interessante. Non c’è voltafaccia o tradimento abbastanza clamoroso per la politica mediorientale. Ma è chiaro che la partecipazione di Erdogan agli eventi di questi giorni mette la parola fine al cosiddetto Processo di Astana, ovvero all’accordo siglato nel 2016 che ha prodotto quindici round di trattative e, tra fasi più o meno tese, ha portato a una sostanziale spartizione della Siria, con il Nord sotto la tutela diretta o indiretta della Turchia, l’area curda in uno stato di parziale autonomia tra patti con Assad e tutela Usa, il resto affidato al faticoso controllo di russi, iraniani e regime siriano.
Le guerre in cui si è impegnato Israele, però, hanno rotto l’equilibrio. Le basi dell’Iran in Siria sono state colpite a ripetizione e l’Hezbollah libanese, legato all’Iran, è stato decimato. La Russia è fin troppo impegnata in Ucraina e ha trasferito su quel fronte uomini e mezzi prima dispiegati in Siria.
Erdogan, quindi, ha atteso che il logoramento dei rivali toccasse il massimo grado e poi ha agito. Due ora le domande. Che cosa spinge il Rais a sfidare lo Zar Putin, costretto a soccorrere di nuovo Assad se non altro per non perdere quei pezzetti di Russia in Siria che sono le basi di Khmeimin, Tartus e Latakia? Turchia e Russia sono strette da molti legami politici ed economici, e il Cremlino non può non considerare un atto ostile il patrocinio offerto da Ankara all’offensiva del Fronte nazionale di liberazione. Erdogan, però, in questo momento ha buone carte. Ha ottime relazioni con l’Ucraina, cui fin dall’inizio della guerra fornisce armi preziose e che ha aiutato ai tempi dell’accordo sull’esportazione del grano.
A dispetto delle polemiche con gli Usa è pur sempre il leader di un Paese Nato, anzi del Paese Nato con il secondo esercito più forte dell’Alleanza. E ha dalla sua anche l’arma del gas: a fine anno scade, per non essere rinnovato, l’accordo tra Russia e Ucraina per il passaggio del gas russo verso Ovest. A quel punto, alla Russia e ai Paesi suoi clienti non resterà che il transito attraverso il Turkstream, sul cui rubinetto poggiano le mani di Erdogan. Un argomento pesante se pensiamo alla Russia odierna, che ha una fame crescente di valuta forte, spinta dall’inflazione e dal crollo del rublo.
C’è tutto questo dietro il via libera che Erdogan ha dato alle milizie. Bisognerà ora vedere fin dove lui vorrà arrivare, quale sia il suo vero obiettivo. E quale resistenza Assad e soprattutto Putin riusciranno a organizzare. L’uno e gli altri comunque costretti a confrontarsi con le mine vaganti dei jihadisti ex-Al Qaeda e dei curdi, ora minacciati almeno quanto Assad. Il martirio del popolo siriano non è mai finito.
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