Il celibato è qualcosa che rimane sulla carta. Come contributo alla riflessione su presbiteri e sessualità, occorre affrontare quest’ultima questione. L’articolo di Domenico Marrone (http://www.settimananews.it/ministeri-carismi/il-prete-e-la-vita-sessuale/) offre un’interessante prospettiva non riducendo la questione del celibato a semplice regola ecclesiastica più o meno valida. Spesso, infatti, ascoltiamo o leggiamo della questione del celibato per i ministri ordinati della Chiesa cattolica, in termini legalistici. Una regola imposta, insomma, che se rimossa favorirebbe l’eliminazione della pedofilia e una maggiore libertà e maturità affettiva dei ministri ordinati. La strada che propone Domenico Marrone, a tal riguardo, non è sull’obbligo o meno del celibato e dell’imposizione da parte della Chiesa, quanto di una maturità affettiva e sessuale capace di generare. Una generatività che non riguarda solo la sfera fisica o genitale, ma integrale. D’altronde tutte le riflessioni sulla scomparsa o rarefazione della paternità, rivelano che l’essere padre non riguarda semplicemente una capacità di fecondare una donna, ma di assumersi la responsabilità dinanzi alla libertà del figlio o della figlia. Nella formazione del prete, sembra che il principale scoglio consista proprio nell’adesione o meno ad una vita celibataria. Una vita che fa paura, una vita che pone delle evidenze di solitudine e di isolamento riscontrabili in molti presbiteri. Nel suo articolo, comparso ormai qualche mese fa, Domenico Marrone torna a riflettere sulla dimensione celibataria e la formazione nei Seminari. C’è bisogno di una maturità affettiva di fondo in cui poter inserire la vita celibataria, la quale, altrimenti, rimarrebbe semplicemente sulla carta, ovvero come una regola da osservare, un obbligo a cui attenersi, almeno in pubblico. Poi, giunti ad una certa ora, quando tutte le attività pastorali sono ferme, quando si è compiuto il proprio dovere, quando ormai tutti sono tornati a casa, il celibato viene assimilato all’abito clericale, di cui ci si può benissimo spogliare e appendere ad un chiodo, per essere se stessi. Guardare al celibato come una semplice regola clericale o come un obbligo da osservare o, ancora, come un assioma pubblico da non poter mettere in discussione, non solo rende il celibato facilmente eludibile ma ne sminuisce il senso. Per questo motivo, la nostra intenzione non è tanto di mettere in questione la relazione fra celibato e ministero ordinato, quanto di farsi mettere in discussione, nel ministero, dal celibato stesso e dalle sue forme contemporanee.
Non vogliamo, quindi, discutere se il celibato sia una regola assoluta all’interno del ministero presbiterale e neanche dei rischi che si possono incontrare nella vita di un ministro celibe, anche perché la letteratura, in questo campo, è sconfinata. Le considerazioni che vogliamo porre in essere partono dall’idea che, la vita celibataria, non sia per forza un male e che, nel mondo contemporaneo, sia addirittura preferita al matrimonio. La considerazione per cui la vita celibataria sia una diminuzione dell’esistenza, nell’epoca contemporanea, sembra essere un’idea del tutto superata. Il filosofo Michel Onfray ci offre una prima descrizione del celibato nel suo La potenza di esistere, scrivendo:
Ai miei occhi il celibe non vive necessariamente solo, senza compagno né compagna, senza marito o moglie, senza partner abituale. Essa definisce piuttosto colui che, anche impegnato in una storia che si può definire amorosa, conserva le prerogative e l’uso della sua libertà. Questa figura è affezionata alla propria indipendenza e gode della sua sovrana autonomia. Il contratto con cui si impegna non è a durata indeterminata, ma determinata, eventualmente rinnovabile, certo, ma senza nessun obbligo.[1]
Secondo Michel Onfray, dunque, il celibato sarebbe un modello esistenziale in cui predomina la determinatezza della relazione. Non esiste la creazione di una terza forma, nella vita di coppia, ma semplicemente una relazione che si costruisce senza obblighi e senza impegni reciproci e che può essere rinnovata o interrotta. Si tratta, nella sua concezione edonista della realtà, di una macchina celibe ovvero di una strutturazione non di relazioni assolute o a tempo indeterminato, ma fino a quando dura, senza obblighi né, tantomeno, un per sempre della vita di coppia. La vita celibataria consiste in relazioni che si costruiscono nel quotidiano, secondo Onfray, senza un bisogno di patti, alleanze o, addirittura, sacramenti. Relazioni che si giocano nel terreno della contingenza, che germogliano e che, ad un certo punto, seccano e periscono. Senza alcuna sovrastruttura o fondamento che regga la relazione se non il libero e contingente consenso delle parti. Non relazioni giocate, per utilizzare la terminologia di Onfray, sul niente-tutto-niente ovvero su una scelta fatta in un tempo preciso e che valga per sempre, ma su un niente-tutto-molto, dove una relazione che si sceglie, anche quando termina, porta comunque un arricchimento contingente, in termini di godimento e di piacere.Una concezione celibataria che Michel Onfray chiama macchina celibe, prendendo in prestito questa terminologia da Michel de Certau.
Nella sua opera L’invenzione del quotidiano, Michel de Certau afferma della macchina celibe:
Produzioni che hanno del fantastico non già per l’indecisione di un reale che farebbero apparire alle frontiere del linguaggio, bensì per il rapporto fra i dispositivi di produzione di simulacri e l’assenza dell’altro. Queste finzioni romanzesche o iconiche raccontano che non ci è, per la scrittura, né entrata né uscita, ma soltanto l’interminabile gioco delle sue fabbricazioni. Il mito dice il non luogo dell’avvenimento o un avvenimento che non ha luogo – se qualsiasi evento è un’entrata o un’uscita. La macchina produttrice del linguaggio è avulsa dalla storia, scevra dalle oscenità del reale, assoluta e senza rapporto con l’altro «celibe». È una «finzione teorica», per dirla con Freud che già disegnava, nel 1900, una sorta di macchina celibe fabbricatrice di sogni – marcia in avanti durante il giorno, e marcia indietro durante la notte. Essa si scrive in una lingua senza terra e senza corpo, con tutto il repertorio di un esilio fatale o di un esodo impossibile. La macchina solitaria fa funzionare l’Eros del morto, ma questo rituale luttuoso (non ve ne sono altri) è una commedia nella tomba dell’assente. Non vi è morte nel campo delle operazioni grafiche e linguistiche. Il «supplizio» delle separazioni o della messa a morte del corpo resta un fatto letterario. Che ferisca, torturi o uccida, si svolge all’interno della pagina. Il celibato è scritturale.[2]
La macchina celibe, per de Certau, è una finzione letteraria. Una finzione che rinchiude il soggetto nel protagonismo individuale della sua storia, attraverso la creazione di simulacri che gli permettano di godere non dell’altro, ma di se stesso. La macchina celibe di cui parla de Certau è un artificio letterario nato nel XVIII secolo, con Robinson Crusoe, protagonista dell’omonimo romanzo di Daniel Defoe. Un uomo che lavora in solitaria, su un isola deserta e che ha come compagno di avventure e inserviente, Venerdì. Nessuno, nella storia dell’isolato, ha un nome tranne Crusoe, singolo protagonista e sopravvissuto della sua avventura. Per de Certau, la macchina celibe è il taglio antropologico che ci fa riconoscere come solitari protagonisti di una storia individuale, dove non c’è realismo né collettività. La macchina celibe è la scrittura della propria esistenza, in cui noi siamo i soli protagonisti celibi di una serie di relazioni in cui l’altro rientra solo e soltanto come costrutto della nostra individualità, come sostegno a ciò che vogliamo e pretendiamo. Ora, tornando alla realtà del celibato all’interno del ministero presbiterale, siamo messi sotto una nuova provocazione. Il celibato non come elemento negativo, come diminuzione dell’esistenza, ma come autoaffermazione della propria storia, come possibilità di affermarsi nella sfera pubblica e di avere molto tempo privato da poter dedicare ai propri interessi, senza il peso dell’altro. La confusione e l’assimilazione della macchina celibe con il celibato ministeriale del presbitero è abbastanza frequente e difficile da discernere. Infatti, come ci ricorda Mario Danieli, il celibato ministeriale rischia di essere confuso e assimilato con la macchina celibe quando non entra più in gioco la dimensione dell’alterità.
Uscire da se stessi, accorgersi degli altri, impegnarsi, permettere che la propria vita cambi a partire dalla presenza di persone e di esigenze nuova, è una sfida continuamente portata al nostro egocentrismo, alla naturale tendenza a contemplare il nostro ombelico quale fosse il centro del mondo e a fissare tutta la nostra attenzione sui nostri problemi personali. Paradossalmente, la vita religiosa – che in genere si sceglie per poter aiutare gli altri – con le sue garanzie e sicurezze, con i suoi riti e consuetudini, con le sue esigenze di conservazione e di isolamento, rischia di favorire nei religiosi, senza volerlo, un processo di chiusura su se stessi. Per una serie di ragioni storiche di cui nessuno in particolare è colpevole, alcune comunità religiose hanno finito per trincerarsi in una specie di castello, con pochi contatti con il mondo. Pur vivendo alle volte geograficamente in mezzo alla città, di fatto sono estranei alla vita e ai problemi degli uomini, a tal punto che non li percepiscono neppure più.[3]
Il celibato, dunque, diviene punto di discussione e messa in questione dell’esistenza del ministro ordinato nella misura in cui, nella sua vita, c’è una dimensione di alterità. Non si tratta solo dell’osservanza di un obbligo o dell’astensione da pratiche sessuali di qualsiasi genere. Il celibato riguarda la dimensione dell’alterità, una dimensione che ci vede fare chiarezza sulla nostra sessualità di ministri, fare trasparenza sulle relazioni che viviamo, uscire dal segreto e dal tabù in cui cerchiamo continuamente di salvaguardare noi stessi, per andare incontro all’altro. Non crediamo, quindi, che l’abolizione del celibato per il ministero ordinato sia la garanzia di una vita sessuale più matura, nel contesto contemporaneo delle macchine celibi. Come non pensiamo che la vecchia giustificazione di una donna accanto al presbitero sarebbe la carta vincente. In prima istanza perché il rischio non è quello dell’alterità nel matrimonio, ma dell’alterità in generale, poi perché sarebbe comunque una diminuzione del sacramento del matrimonio. Infatti, pensare che una donna accanto al presbitero possa aiutarlo significa sminuire sia il valore della donna, chiamata ad essere di fronte e non accanto al marito, come irriducibile alterità, e poi suonerebbe come una specie di contentino della pratica sessuale del ministro. In altri termini, il ministero uxorato varrebbe come valvola di sfogo del ministro ordinato, una specie di ciuccio per sedare il pianto di pulsioni sessuali immature. Il celibato è una dimensione liberante nella vita, non perché si evita il peso di una moglie o perché l’alterità sia un palliativo per le proprie pulsioni sessuali, ma perché ci si riscopre liberi, insieme agli altri. Non con persone accanto nel favorire il nostro narcisismo, ma di fronte, da uomini e donne, corpi autentici, meravigliosamente di carne.
[Presbitero, redattore CUF]
[1] M. Onfray, La potenza di esistere. Manifesto edonista, Ponte alle Grazie, Milano 2009, p.113.
[2] M. de Certau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma 2012, p. 216-217.
[3] M. Danieli, Liberi per chi? Il celibato volontario nella Chiesa, Segretariato Nazionale dell’Apostolato della preghiera, Roma 2005, p. 134.