Buttarsi dentro! In gergo significa occupare una casa popolare in maniera illegale, senza titoli e senza essere nelle liste degli aventi diritto. Il termine “Buttarsi dentro!” deriva da una intercettazione riportata nella relazione dalla Commissione d’indagine nominata dal Prefetto e che ha portato allo scioglimento e commissariamento del Comune di Trinitapoli. Il dialogo fra un funzionario pubblico e un pregiudicato si caratterizza in questi termini per cui il primo dice al secondo che quel suo amico che vuole la casa popolare deve “Buttarsi dentro!” per poi essere regolarizzato. Una realtà, quella degli edifici di edilizia residenziale pubblica, che è stata portata come principale motivazione per il commissariamento dell’Ente Comunale a causa della palese e pressante infiltrazione di organizzazioni criminali di stampo mafioso. Nella relazione della Commissione d’indagine pubblicata sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana il 04 maggio 2022, possiamo leggere:
L’azione dello Stato, nelle sue varie articolazioni, è stata particolarmente apprezzata dalla comunità locale ed ha avuto ampio risalto sulla stampa, non solo perché si è riusciti finalmente a rimuovere situazioni di illegittimità e di illegalità radicatesi nel tempo e sotto gli occhi di tutti, atteso che le abitazioni in questione, conosciute come le “case maledette”, erano divenute luogo di spaccio di sostanze stupefacenti, ma anche perché, considerazione non secondaria, sono stati restituiti al circuito abitativo gli alloggi al fine della loro legittima assegnazione agli aventi diritto. La criminalità organizzata, con l’occupazione sistematica – come accertato anche dalla Commissione – dei suddetti alloggi ad opera di nuclei familiari di persone intranee o contigue ai sodalizi mafiosi di Trinitapoli e con l’interesse diretto nei confronti dei beni comunali in generale, ha manifestato il proprio strapotere, non contrastato dal alcun amministratore, ma anzi favorito dall’entourage del omissis omissis, senza peraltro che nessuno, incluso l’omissis omissis al omissis era omissis, si opponesse a tale stato di fatto.[1]
Dalla relazione della Commissione d’indagine emergono vari ed interessanti fattori che legano le organizzazioni criminali all’Edilizia Residenziale Pubblica. Un nesso che suscita ancora non solo interventi da parte delle Forze dell’Ordine ma soprattutto una domanda sulla qualità abitativa delle nostre città, sul senso di comunità, sul perché l’edilizia residenziale pubblica faccia gola alle organizzazioni criminali e, ancora di più, se questo nesso si possa spezzare o debellare. Tante domande, insomma, che partono tutte da una base, da una relazione ambigua fra le organizzazioni criminali e le amministrazioni pubbliche ma, ancora più in profondità, sul senso dell’Edilizia Residenziale Pubblica. Il caso di Trinitapoli ci permette di avere elementi prospettici per quanto riguarda questo nesso fra casa popolare e criminalità organizzata.
Il primo elemento che vogliamo prendere in considerazione è la genesi delle case popolari nel Comune di Trinitapoli, in modo particolare le “case maledette”. Guardando la cartina del Comune di Trinitapoli, possiamo riconoscerne immediatamente il reticolato ordinato lungo l’asse che va da levante a ponente. Case ordinate di massimo due piani a cui si accostano case di otto piani, frutto delle varie variabili e deroghe ai Piani Regolatori. Tuttavia, ciò che colpisce maggiormente è un agglomerato di case sparse, identiche e irregolari nella periferia est: le “case maledette”. Alloggi costruiti nell’immediato Dopo Guerra grazie ai fondi dell’Amministrazione delle Nazioni Unite per l’assistenza e la ri-abilitazione – Comitato Amministrativo Soccorso Ai Senzatetto (UNRRA-CASAS). Dopo un breve periodo militarizzato, il Secondo Dopo Guerra si caratterizzò per una intensiva opera di ricostruzione, in modo particolare edilizia. I fondi stanziati dalle Nazioni Unite per la ricostruzione hanno contribuito alla edificazione rapida di milioni di abitazioni, in realtà, senza una vera pianificazione. Il che ha contribuito alla creazione di una disarticolazione del territorio in termini di ghettizzazione anonima.[2] L’ansia di ricostruire in maniera rapida, le pressioni delle tante persone rimaste senza casa, la desolazione post-bellica hanno accelerato l’edilizia senza una visione di città e, in modo particolare, senza una visione comunitaria di città. Questo elemento, a nostro parere, è uno dei fattori generanti la ghettizzazione dell’Edilizia Residenziale Pubblica portando così la popolazione non a sentirsi comunità, ma a sviluppare fattori identitari forti e marcati. Fattori che caratterizzano e incrementano ancora oggi il senso di appartenenza alla famiglia e all’organizzazione clanica della criminalità organizzata. Infatti, l’organizzazione delle mafie nel basso tavoliere, è ancora costruita su relazioni familiari, di attinenza o continuità parentale e, di seguito, clientelare. La situazione dell’intervento delle organizzazioni criminali sull’Edilizia Residenziale Pubblica, sia per quanto riguarda le “case maledette” sia per quanto riguarda le altre case popolari, è motivato proprio da questi fattori. Per cui, l’assegnazione della casa popolare è non è legata ad una autorganizzazione del territorio rispetto all’inefficienza della macchina amministrativa e burocratica, quanto ad una relazione clanica con le persone che avevano bisogno di una casa a basso prezzo. In questo si manifestazione del potere si manifesta l’organizzazione criminale, la sua capacità di “sistemare” o, per meglio dire “buttare” le persone in luoghi che nascono già con problemi di anonimato e di ghettizzazione. Proseguendo nella lettura della Relazione:
È proprio attraverso le condotte sopra evidenziate che la mafia di Trinitapoli ha saputo adattare le proprie strategie di azione e di crescita alle esigenze provenienti dal territorio, riuscendo a presentarsi come l’interlocutore privilegiato nel soddisfacimento di un bisogno primario, come quello della casa, sfruttando il margine d’azione che gli amministratori hanno consentito che venisse occupato dalla criminalità, quand’anche non abbiano abdicato al ruolo di governo loro proprio per timore, generato dalla potestà di intimidazione, ovvero per ringraziamento a motivo del contributo fornito per le campagne elettorali. La conseguenza immediata di tale comportamento da parte degli amministratori è la legittimazione di fatto attribuita alla mafia locale, in spregio a qualsiasi norma, riconoscendo di fatto ad essa un ruolo sociale, quasi che fosse una legittima istituzione con il potere di intercettare e soddisfare le esigenze dei cittadini.[3]
Il nesso fra criminalità organizzata ed Edilizia Residenziale Pubblica, dunque, non è frutto di un miglioramento della città, di una visione autorganizzata della città, ma di una presa di potere. Un potere criminale che funziona nella misura in cui attecchisce sul territorio, nella misura in cui è visibile a tutti i cittadini e le cittadine. Per questo motivo, l’intromissione nella gestione dell’assegnazione delle case popolari è uno strumento di accrescimento del proprio potere, della propria visibilità in risposta ad un bisogno primario che è quella della casa. Un potere che funziona, dunque, solo e soltanto attraverso l’asservimento e non per promozione di un territorio. In altri termini, alle organizzazioni criminali di Trinitapoli e, in generale di ogni territorio, non interessa migliorare la realtà, non interessa una visione di città, ma rafforzare il proprio potere rispondendo ad un bisogno immediato dei loro affiliati. Il che aggiunge degrado a degrado e rende ogni casa una “maledetta” palude in cui “buttare” scarti umani.[4]
[presbitero, redattore CUF]
[1] Prefettura di Barletta Andria Trani – ufficio territoriale del Governo, Comune di Trinitapoli. Relazione ai sensi dell’art. 143, comma 3, del Decreto Legislativo 18 agosto 2000, n. 267 come modificato dall’art. 2, comma 30, della Legge 15 luglio 2009, n. 94, in Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, n. 103, 4-5-2022, p. 51.
[2] Cesare de Seta sottolinea: «L’urgenza della ricostruzione, l’impellente bisogno di impiegare nelle attività edilizie almeno una parte della massa di disoccupati, l’ansia di ricucire il tessuto urbano sconvolto di tante città italiane devastate dal conflitto, la pressione esercitata da migliaia di senza tetto, furono argomenti che indussero il governo ad introdurre tra gli istituti giuridici il piano di ricostruzione che, semplicisticamente, azzerava le difficoltà e le macchinosità inserite nella legge del ’42. Si passava così da uno strumento apparentemente completo ed organico – ma si è visto che la legge del ’42 era di una organicità solo formale – a uno strumento estremamente rapido e risolutivo dei molti problemi posti sul tappeto del rinnovato fervore edilizio. […]. È corretta l’osservazione di Roberto Guiducci che al riguardo ha notato: «Il piano di ricostruzione, psicologicamente sostenuto dall’urgenza ricostruttiva, in effetti è stato soltanto uno strumento di speculazione che ha strozzato una visione urbanistica aperta al futuro per la massima parte dei centri italiani» (C. De Seta, Città, territorio e Mezzogiorno in Italia, Einaudi, Torino 1977, p. 235-236).
[3] Prefettura di Barletta Andria Trani – ufficio territoriale del Governo, Comune di Trinitapoli, p. 59.
[4] Scrive Jane Jacobs accennando al nesso fra slums e criminalità organizzata: «In una serie di articoli sulla criminalità apparsi nel “New York Times”, Harrison Salisbury ha così individuato il punto chiave del circolo vizioso degli slums nel caso dei complessi di edilizia popolare: «In troppi casi… gli slums sono stati soltanto rivestiti di nuovi involucri di mattoni e d’acciaio: lo squallore e la miseria sono stati racchiusi entro nuove, gelide pareti. Nel ben intenzionato tentativo di guarire un male sociale, la collettività ha finito con l’aggravare altri mali e col crearne di nuovi. L’assegnazione degli alloggi nelle case popolari vien fatta essenzialmente in base ai livelli di reddito… La segregazione non è imposta dalla religione o dal colore della pelle, ma dall’inesorabile criterio del reddito o della mancanza del reddito. Per poter valutare i danni che questo criterio produce nel tessuto sociale della collettività bisogna averli veduti coi propri occhi: le famiglie attive e capaci di progredire vengono continuamente eliminate… mentre il livello economico e sociale dei nuovi venuti tende ad abbassarsi sempre più… Si forma una specie di palude umana che è un focolaio di mali sociali e che richiede una permanente assistenza dall’esterno». La costante speranza di chi istituisce questi slums programmati è che essi debbano migliorare «quando avrà avuto tempo di formarsi una comunità». Ma anche qui, come negli slums permanenti spontanei, il tempo agisce costantemente, come un fattore distruttivo invece che creativo. (J. Jacobs, Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, Einaudi, Torino 2009, p. 259-260).