C’era una volta il posto fisso, la carriera e la retribuzione. Si potrebbe cominciare così. E a futura memoria si potrebbe ricordare il teorico modello di Abraham Maslow, la famosa piramide motivazionale, studiata in tutte le università del mondo, dove prima di scalare il desiderio di autorealizzazione, occorreva salire i gradini di una solida sicurezza sul lavoro e di un granitico stipendio che non smottava mai. Ambizioni che per decenni, forse un secolo, hanno condizionato le scelte sul lavoro di intere generazioni.
Ma il meccanismo si è inceppato, complice anche la pandemia che ha accelerato e enfatizzato un fenomeno, che è esploso negli ultimi due anni, ma che già era in fase di maturazione da tempo. Lo smart working ha riscritto il copione: costretti in casa molti lavoratori hanno avuto il tempo di mettere a fuoco la propria condizione occupazionale. E sono emerse alcune negatività che fino a quel momento essi accettavano pensando di non avere altra alternativa: uno stile di direzione autocratico del capo; uno sbilanciamento sul lavoro rispetto alla qualità della vita personale; una eccessiva rigidità dell’orario; una mansione ridotta nel senso e nel significato sociale. E si sono domandati se ciò che facevano ogni giorno fosse in linea con la loro integrità personale e la loro voglia di benessere.
La pandemia ha irrevocabilmente cambiato ciò che le persone si aspettavano dai loro ruoli lavorativi, rimescolando le priorità. In particolare i giovani, quei millennials e rappresentanti della generazione Z (i nati tra il 1981 e il 1995 e poi tra il 1996 e il 2010, cresciuti nell’era digitale), che sono stati battezzati come profondi sostenitori della filosofia «yolo» (you only live once, si vive una volta sola).
Ed ecco la Great Resignation, termine coniato da Anthony Klotz, professore di management all’Università del Texas, la grande dimissione volontaria di massa da tutti i contratti di lavoro, anche quelli a tempo indeterminato. Una polveriera che dal 2021 ha scosso le fondamenta dell’organizzazione ancora «novecentesca» e che ha fatto esplodere le politiche più consolidate della gestione del personale. Il fenomeno, iniziato in America, si è rapidamente diffuso anche in Italia e le uscite sono cresciute nel 2022 di oltre un terzo rispetto allo stesso periodo del 2021, e non accennano a diminuire, anzi sono in ulteriore aumento.
L’Osservatorio del precariato dell’Inps registra nei primi sei mesi di quest’anno ben 3.332.000 cessazioni di lavoro, prevalentemente al Centro Nord. E ciò che sta capitando non è certo nulla di congiunturale che in pochi mesi possa ritornare al bel tempo che fu. Perché occorre per di più osservare che anche chi non si dimette non nasconde il proprio scontento e la propria insoddisfazione.
Come hanno reagito le aziende? Governate da dirigenti baby boomers ormai cinquantenni e sessantenni, provenienti da una formazione fatta da regole fisse, da un orientamento obbligato alla performance e all’efficienza, da un’abitudine al sacrificio della vita privata per la professione, e da una relazione con capi e subordinati prettamente verticale, le organizzazioni hanno inizialmente ricercato le cause in determinanti esterne (il reddito di cittadinanza, il costo della vita della grandi città, la svogliatezza dei giovani lavoratori, e così via), salvo poi ricredersi e convincersi che la Great Resignation racconti un Paese alla ricerca di un maggiore equilibrio tra vita privata e lavoro.
E allora cosa fare? Innanzitutto imparare dalle imprese illuminate. Ci sono. Non moltissime, ma ci sono. Ecco il programma che stanno seguendo. Cominciare ad ascoltare le persone perché questo è il presupposto per chiedersi cosa si può dare loro di più rispetto al canonico stipendio. Eliminare una organizzazione «tossica», che incide negativamente molto più delle condizioni igieniche di carriera e retribuzione. Rimodellare lo stile di conduzione dei capi e del top management, che spesso non riescono nemmeno a percepire le pretese dei giovani di gestire il loro tempo. Promuovere condizioni di lavoro flessibile più coerenti con i fabbisogni dei nuovi talenti. Rispettare l’equità di genere e i meccanismi di attivazione della diversità e della inclusione sociale. Superare la concezione che le aziende siano soltanto macchine finalizzate a produrre, mentre invece esse sono comunità di persone unite da emozioni e destini comuni. Dare un senso al lavoro, assecondare passioni e vocazioni e sviluppare legami, perché i giovani — tra i 25 e i 35 anni — sono al loro apice biologico e ideativo e, giustamente, non possono essere costretti ad accettare ruoli offensivi per il loro potenziale. Ripensare un modello di governance e di welfare che possa incontrare la propensione etica e solidale dei nuovi lavoratori.
Solo quelle imprese illuminate che sapranno mettersi in relazione con le generazioni emergenti e avranno il coraggio di riscrivere un patto tra persone e azienda alla ricerca di un nuovo senso di vita resteranno competitive. Solo le imprese che dimostreranno di saper riprogettare forme di lavoro agile saranno in grado di attrarre, di far crescere e di trattenere i propri dipendenti, offrendo loro la giusta congruenza con le nuove ambizioni lavorative. Solo le imprese che saranno consapevoli che il mondo che ci circonda è quello dell’«economia del noi», aperta, partecipativa, trasparente, dove si transita dalla gestione egocentrica e verticistica a quella inclusiva e comunitaria, sapranno prosperare.
Non si torna più indietro. Inutile illudersi di poter ritornare al passato. Inutile invocare altri alibi per non cambiare. Ciò confermerebbe solamente di non voler fare i conti con la storia che avanza e di non aver capito in profondità che il paradigma dell’organizzazione scientifica non solo è scricchiolato, ma è definitivamente morto e sepolto.
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