Buongiorno tristezza, di Angela Donatella Rega

Né Françoise Sagan nel 1954 con il suo romanzo Bonjour tristesse nè Otto Preminger nel 1958 con il film omonimo e ancor meno Claudio Villa nel 1957 con la sua canzone così intitolata, avrebbero mai immaginato che queste due parole potessero descrivere così bene la realtà attuale.
Non so la vostra, ma la mia vita è stata un sogno, almeno quella parte della vita che, come un fil rouge, ha caparbiamente accompagnato ogni successo ed ogni, sia pur terribile, sconfitta, vissuti nel solco tracciato dai miei solidi educatori e, per dirla tutta, soprattutto tracciato dalle loro attenzioni, dal loro certissimo affetto, dalla loro ben celata fragilità (da me scoperta più tardi) e, perché no, anche dalla loro allegria. Ne avevano ben donde dopo le guerre che avevano attraversato, da bambini prima e poi da soldati o da mogli e madri e sorelle di soldati.
Dunque in cosa consisteva il sogno?
Innanzitutto, come mi insegnarono, nell’apprezzare alcune cose gratuite. Per esempio la luna e i fiori, l’azzurro e la freschezza del mare, il verde dei prati e l’ombra profumata degli alberi. Seconda cosa nell’apprezzare e non sprecare il cibo quotidiano semplice e genuino a partire dal pane profumato che per loro non era stato sempre scontato avere, e per tanta gente ancora adesso.
Poi credere nella solidità del bene e del perseguirlo con fiducia ed onestà, tutte cose che alla lunga, mi assicuravano, ti ripagano. Ed io ho riscontrato che è così, magari più nella sfera personale ed affettiva che in un percorso di carriera, ma ciò è davvero sufficiente per sentirsi felici.
Perché allora oggi saluto la tristezza se ne avevo motivo anche in passato, sapendo bene di quante ingiustizie e soprusi fosse carico il mondo? Lo sapevo bene, perché ho lottato con le mie deboli forze, contro quelle ingiustizie, partecipando a manifestazioni (quante!!!), poi votando, poi dentro alcune associazioni, di passaggio in un partito, poi magari anche in qualche parrocchia ed anche nel mio lavoro, guadagnando spesso l’astio da parte dei miei dirigenti. Ho lottato anche contro problemi di salute, avversità nella vita affettiva, ma ho sempre, in qualche modo, vinto. Nel frattempo ho inseguito il mio sogno sempre, per vivere e per sopravvivere.
Oggi saluto la tristezza e l’occasione me l’ha data una banale partita di calcio, non le guerre in atto, non gli orrori legati ad esse, e a quelli della cronaca, tutte cose su cui ho riflettuto già a lungo, soffrendo dell’assurdità di tali eventi. Una banale partita di calcio che mi ha aperto gli occhi su quel quid, quel tanto che ha cambiato il mondo e di cui avevo percezione ma senza valutarne o capirne il senso, anzi io ne vedevo il nonsense, quello di una follia collettiva inspiegabile, sia pur motivata da sete di potere e di denaro o da arrivismo o da indifferenza.
Improvvisamente mi sono accorta che in una partita di calcio di oggi non esiste più il contropiede, o, meglio, chiamano contropiede una cosa che finisce con il giocatore che è partito veloce verso la porta avversaria falciato a terra e l’arbitro che tira fuori il cartellino giallo ammonendo chi l’ha falciato.
Buongiorno tristezza!
Non sentirò più un commentatore che grida: “Riva, Riva, Riva, rete!!!!!” e non perché Riva non c’è più, ma perché l’avversario adesso si falcia mentre corre a fare goal.
È il principio che governa l’etica attuale, quella che io chiamavo del nonsense: si può fare tutto pur di vincere ma anche pur di non far vincere un altro. Lascio stare i poveri giocatori di calcio che sono serviti da spunto alla mia immaginazione e penso a quest’ultimo insano principio: si può fare tutto pur di vincere e di non far vincere altri. Non che tramare il male non fosse in auge sin da Caino ed Abele, passando da millenni di storia per arrivare fino ai sottili giochi geopolitici attuali ed alle lotte e guerre per l’egemonia in qualsivoglia campo.
Ma se tutto si può fare pur di vincere e di non far vincere (Machiavelli ricordato per quella atroce frase del fine che giustifica i mezzi potrebbe, almeno per quella frase, andare a quel paese a mio parere) vedo infranta inesorabilmente ed a livello spicciolo, quotidiano, capillare, la pietas, infranto il senso del riconoscimento nell’altro di sé stessi e quindi dell’auspicabile, parola difficile, umanità. Un’umanità che non riconosco più neanche in me e quindi non riconosco all’altro o nell’altro.
Ci stiamo trasformando in pedine di un gioco virtuale? Ditemi di no!
Ma forse vale la pena pensarci. Conviene addirittura spegnere per lunghi tratti i nostri device, i nostri televisori e fermarsi per un tempo abbastanza lungo a guardare la luna ed a sognare, qualche volta magari anche un mondo in cui commettere un fallo era gioco sleale e gli avversari si contrastavano correndo a difendere la propria porta, quando ciò era possibile, con le proprie capacità.

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