Gli avvenimenti di sabato 24 giugno in Russia hanno del clamoroso. La Wagner, una milizia privata, integrata nell’esercito russo, ha occupato un’importante città come Rostov e ha poi marciato su Mosca mentre l’esercito russo rimaneva per lo più fermo. Quando ormai la capitale non era lontana si è giunti a un accordo i cui termini non sono particolarmente chiari: Prigozhin dovrebbe andare in Bielorussia, broker dell’accordo, la milizia dovrebbe essere inserita formalmente nell’esercito, dove potrebbero però cambiare i comandi.
Prigozhin è stato sconfitto, ma quella del Cremlino rischia di essere una vittoria di Pirro. Che un gruppo privato di militari possa arrivare a minacciare il centro del potere è già di per sé uno smacco e rivela una situazione di instabilità all’interno del potere russo. Per aggiungere la beffa al danno i golpisti non sono stati, almeno per il momento, puniti. Dietro queste apparenze ci potrebbe essere molto altro, ma le apparenze, in questo caso, sono anche la sostanza dell’immagine di uno Stato incapace di far rispettare le proprie leggi, e che subisce l’affronto più grande: la perdita, per quanto temporanea, del monopolio dell’uso della forza. Un signore della guerra, per altro allevato e finanziato dal Cremlino, può permettersi di ribellarsi e arrivare a minacciare la capitale.
È inutile, al momento, perdersi in speculazioni su cosa esattamente sia successo, e sulle immediate conseguenze della «Marcia su Mosca». È invece utile fare alcune considerazioni di carattere sistemico sul potere russo, che ha strutture e caratteristiche molto particolari, in eterna lotta tra spinte centrifughe e reazioni centripete e con un problema storico di «stateness» e di controllo del territorio.
In effetti la parabola di Putin è legata esattamente a questo tipo di azione politica: la riaffermazione del potere di Mosca e dello Stato, un ventennio di movimenti centripeti dopo la disintegrazione dell’autorità pubblica a seguito del collasso dell’Urss. Durante la prima fase della transizione, negli anni Novanta, la sovranità venne parcellizzata tanto da mettere a rischio l’esistenza stessa della Russia. Eltsin – che al contrario di quanto ci raccontavano allora i nostri media, non aveva un vero supporto popolare – costruì il proprio potere sulla base di accordi ad personam con i diversi attori politici e istituzionali che ne sostenevano la presidenza.
Il potere di Mosca era talmente indebolito che era difficile poter riconoscere uno spazio legale unificato: tra il 1994 ed il 1998 il Cremlino firmò 46 trattati bilaterali con le regioni russe, uno diverso dall’altro, e basati semplicemente sul potere di contrattazione dei governatori regionali. Nello stesso arco temporale, i parlamenti locali approvarono non meno di 62 «Costituzioni» e 7 mila leggi in contrasto con la legislazione nazionale. Il caos legislativo era un caos politico, e ogni governatore regionale era una versione moderna di un feudatario in grado di contrastare il potere pubblico: tasse federali non pagate o non trasferite; controllo parziale delle risorse naturali; e financo restrizioni regionali sul commercio nazionale.
Mentre l’autorità semi-legale ma pubblica dei boss locali riduceva il potere di Mosca, emerse con forza anche l’autorità privata degli oligarchi, che con la complicità della Presidenza si contrapponeva a quella dello Stato centrale. Nella corte informale del Cremlino, la Semya (famiglia, riferita agli accoliti di Eltsin), gli oligarchi occupavano il potere – un caso esemplare di State capture – mentre nelle strade si combatteva una vera e propria guerra per bande tra le mini-armate degli oligarchi. Per usare la terminologia di un grande studioso come Mancur Olson, la Russia si era ritrovata in una situazione pre-moderna dal punto di vista della statualità, terreno di lotta dei roving bandits, interessati a fare bottino lasciando intorno terra bruciata.
Putin ebbe dunque il ruolo di stationary bandit, lo stabilizzatore che poneva fine alle lotte tra clan e alla «piratizzazione» dell’economia russa. La sua azione politica fu da subito imperniata sulla riaffermazione del potere centrale, sia vis-à-vis nella periferia, sia reprimendo gli oligarchi che si opponevano al potere del Cremlino, sia riducendo gli spazi di dissenso. È interessante notare come i famosi poteri da «neo-zar» di Putin siano in realtà quelli ereditati da Eltsin e dalla sua Costituzione del ’93: quello che è cambiato non è l’assetto istituzionale, ma la distribuzione del potere tra le élite. Che accettarono il potere centrale in quanto garante, anche, dei loro interessi che sono tanto politici quanto personali, nella commistione tipica dei regimi patrimoniali.
La guerra sembra però aver svelato, o accelerato, una relativa instabilità di quel sistema di potere. In particolare, l’utilizzo massiccio sul fronte di milizie «private» o comunque non sottoposte direttamente alla catena di comando dell’esercito, ha rimescolato le carte e spostato equilibri delicati. È certo vero che la privatizzazione di alcuni servizi di sicurezza attraverso contractors avviene in tutto il mondo, a partire dagli Usa – dove però, di norma, operano in ruoli ancillari rispetto a quello dell’esercito.
In Ucraina, invece, le armate private di Prigozhin e Kadyrov sono state impegnate nei punti più caldi del fronte – a Mariupol, a Bakhmut – per risparmiare le vite di molti coscritti, riducendo dunque il costo politico della guerra di Putin. Costo che però è stato pagato in altro modo, aumentando il potere interno di questi oligarchi e destabilizzando il potere dello Stato che si trova alle prese con milizie private che hanno obiettivi politici interni.
Come in passato, il centro ha fatto un patto faustiano con membri dell’élite nella speranza di puntellare il proprio potere, ma contribuendo di fatto a eroderlo. È stata, infatti, la devoluzione di funzioni militari a gruppi oligarchici privati a consentire la trasformazione di uno scontro politico in uno scontro militare – l’autorità pubblica ha parzialmente perso la sua capacità di prevenire le crisi. Certo, non ha perso (ancora?) la capacità di risolverle, ma il segnale di instabilità, così fresco nella memoria dei russi, è risuonato forte e chiaro. Il golpe di Eltsin del 1993 dovrebbe servire da monito: nonostante il Presidente prevalse nel suo scontro col Parlamento, uscì dallo scontro azzoppato, ostaggio degli alleati che lo avevano supportato in quei giorni. Ogni crisi ha un prezzo da pagare e delle ripercussioni sulla distribuzione del potere. Putin ora, davanti a uno scontro così plateale tra i suoi clientes, potrebbe trovarsi costretto a ricompensare gli alleati che gli sono rimasti fedeli durante la crisi. Un altro costo imprevisto della guerra.
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