Corruzione è il titolo dell’ultimo saggio di Raffaele Cantone, procuratore capo di Perugia (ed ex presidente dell’Anac), pubblicato da Vita e Pensiero nella collana “Piccola biblioteca per un Paese normale”. Più che un libro, una provocazione morale e politica. Intervista:
Dottor Cantone, l’Italia è uno strano Paese. Ma è anche un Paese corrotto?
Lo è meno di quanto dica chi esaspera il tema, ma lo è certamente di più rispetto a quanto pensi chi sottovaluta il problema.
L’impressione è che media e politica si accorgano del fenomeno a intermittenza, seguendo l’onda del momento.
Soprattutto la politica. Ci sono momenti in cui la corruzione è brandita come argomento principale, come nelle penultime elezioni. La legge “spazzacorrotti” è stata la logica conseguenza di quella campagna elettorale. Le leggi sono necessarie e utili, ma purtroppo non sufficienti. Adesso sembra che il tema abbia perso di nuovo rilevanza, in questi ultimi giorni ho sentito dire che la corruzione non è più un problema.
E invece?
Transparency, l’indice internazionale che misura il tasso di corruzione percepita, ha visto l’Italia recuperare diverse posizioni negli ultimi anni: grazie anche alla legge Severino (varata dal governo Monti, ndr) e agli interventi successivi siamo risaliti dal 71° posto del 2012 al 41° del 2022. Adesso però vedo il rischio di un trend opposto, come dopo Tangentopoli. Credevamo di aver risolto tutto, e invece a un certo punto eravamo precipitati addirittura al penultimo posto in Europa, davanti alla sola Bulgaria. Certo, queste classifiche non contengono una verità assoluta, però sono tenute d’occhio ad esempio dagli investitori internazionali. E registro che nel 2023, dopo tanti upgrade, per la prima volta abbiamo di nuovo perso una posizione: siamo 42esimi. Un campanello d’allarme.
Eppure il governo va di fretta, tra semplificazioni e depenalizzazioni.
Ma non è nemmeno vero che, così facendo, si vada poi tanto velocemente. Non sono sicuro che il nuovo codice degli appalti abbia accelerato la macchina amministrativa. Perché guardi, non è vero che la deregulation è uno stimolo a fare le cose più velocemente. Può accadere semmai il contrario: i funzionari si sentono gravati da maggiori responsabilità, si preoccupano e non ci mettono la firma. In più, c’è l’abbassamento del livello penale: pensiamo all’abuso d’ufficio che presto non sarà più reato. Ebbene, temo si crei un combinato che rischia di favorire nuovamente la corruzione.
Nel libro lei parla di un fenomeno che nel tempo è andato mutando, fino quasi a diventare “sistemico”.
La corruzione è cambiata e ha assunto una dimensione organizzata. Ormai in tanti casi si fa fatica a distinguere tra corruttore e corrotto: ci troviamo di fronte a reti di interesse in cui i due soggetti sono soci, o per meglio dire sodali. Si crea uno stato di corruzione direi quasi gelatinosa. Ci sono soggetti che fanno parte della pubblica amministrazione, danno informazioni e intervengono dove e quando serve. Come abbiamo visto anche in una recente indagine, offrono un servizio completo e utilizzano meccanismi difficili da individuare. Le consulenze in primis: sono formalmente legittime ma spesso, in realtà, si rivelano il corrispettivo di un accordo illecito. Solo che è difficilissimo dimostrarlo.
Che ruolo giocano le mafie?
Le mafie hanno compreso da tempo che la corruzione è uno strumento indispensabile per l’esercizio del potere e il controllo del territorio. Anche perché hanno capito che un funzionario intimidito è meno funzionale di uno corrotto: il primo non vede l’ora di liberarsi di chi lo minaccia, il secondo invece si sente partecipe degli affari.
Tra i soggetti da monitorare ci sono anche le lobby.
Credo che sia necessario un loro inquadramento legislativo, perché ormai si tratta di strutture di livello internazionale, vedi Qatargate. Rappresentare certi interessi non è reato, ma ci vuole trasparenza. I conflitti di interesse sono un vulnus del sistema, vanno chiariti e risolti. Su questo fronte finora si è fatto poco, la legge Frattini è stato un timido tentativo di rimediare a certe situazioni opache, che purtroppo si verificano anche in Parlamento. Non puoi essere onorevole e lobbista contemporaneamente: bisogna fare una scelta, magari mettendosi in aspettativa. Nella Ue le regole ci sono, da noi ancora no.
Papa Francesco è stato duro con chi vive di corruzione, parlando di “pane sporco”.
Un’espressione felice e profonda, come quando disse che la corruzione “spuzza”, in dialetto napoletano. Il Papa è arrivato anche a dire che il peccato si perdona, la corruzione no. Ha senso, perché per avere perdono bisogna avere l’umiltà di chiederlo. E invece questi signori non si pentono, si sentono al di là del bene e del male.
La questione morale, espressione spesso abusata, è quanto mai cruciale.
Come dicevo, non basta fare leggi per combattere la corruzione. È un problema di cultura: in un Paese dove l’evasore è visto come un eroe è difficile respirare legalità. Sarebbe sufficiente applicare il contenuto dell’articolo 54 della Costituzione: chi ricopre funzioni pubbliche ha il dovere di adempierle con disciplina ed onore. Due parole che andrebbero scolpite in ogni ufficio pubblico, e già che ci siamo anche in Parlamento.
Qual è il bilancio dei suoi anni alla guida dell’Autorità nazionale anticorruzione (che ha presieduto dal 2014 al 2019, ndr)?
Certamente positivo. Ho avuto modo di conoscere a fondo la pubblica amministrazione e di sfatare alcuni pregiudizi: negli uffici pubblici ci sono tante risorse umane, non sempre adeguatamente valorizzate. Sul piano dei risultati, ne abbiamo raggiunti diversi: basti pensare all’attività compiuta su Expo 2015. La mia soddisfazione è vedere che l’Anac è ormai diventata un punto di riferimento per tanti enti.
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