Abitare l’inquietudine del tempo, di Riccardo Cristiano

Un articolo potente. È questo che ho pensato leggendo il testo che padre Antonio Spadaro, sottosegretario del Dicastero per la cultura e l’educazione, ha pubblicato su Avvenire del 19 gennaio. Mi ha riguardato.
Spadaro parte dalla velocità dei cambiamenti che caratterizzano il mondo d’oggi: non sembra proprio che ci indichino un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca. I cambiamenti che avvengono Spadaro li definisce rapidi; e spiega che “nell’aggettivo rapido si trova la radice del rapire, cioè afferrare, trascinar via”.  Rapidus, ci ricorda con Calvino, non è ciò che è veloce, ma ciò che rapisce, trascina, travolge. Basta l’esempio della corrente elettrica, della luce, e del suo effetto sulle nostre giornate per capire.
A questo punto del suo testo che spiega perché serva una “teologia rapida”, sostiene che occorra attraversare questo tempo rapido. E richiama il noto passaggio evangelico di Gesù che tra venti e onde paurose invita gli apostoli a passare all’altra riva. Qui interviene la prima osservazione del lettore, credente o non credente non credo che cambi molto.
Tutti sappiamo che Gesù dormiva e gli apostoli avevano paura. Ma quel dormire cosa dice? Spadaro colpisce in profondità il lettore ricordando che papa Francesco ha affermato che il passare sull’altra riva “presuppone un passaggio che avviene nelle coscienze, negli atteggiamenti e nelle intenzioni delle persone”. Dunque davanti al cambiamento d’epoca che stiamo vivendo non dobbiamo cambiare fede, o idea, ma trovare il modo di compiere questo passaggio nella coscienza, negli atteggiamenti, nelle intenzioni.
Forse è per questo che il testo evangelico presenta un Gesù che dorme: lui è sempre padrone della situazione, non è il cambiamento d’epoca che lo sconvolge. Le acque in cui si trovava quella barchetta sono quelle in cui ci troviamo oggi: come si fa a restare saldi? Questa a me sembra la domanda che emerge, decisiva, da questo testo che non riassumo tutto perché non è ciò che serve. Quello che serve è ma individuare la domanda e ragionare sulla risposta: è evidente che emerge l’esigenza, in questa epoca nuova che si va definendo intorno a noi, di nuovi dialoghi, per dire diversamente ciò che diversamente mi circonda.
Non serve il fondamentalismo che rassicura, serve illudersi che un sincretismo di maniera sia la nuova ricetta, afferma Spadaro. Personalmente non temo il sincretismo, perché se è possibile vuol dire che accavalla, non mischia, forse arricchisce, ma queste sono idee mie, non dell’autore.
Lui vede l’urgenza, approcciandosi all’altra riva, di leggere l’inquietudine sociale, non di illudersi di poterla acquietare con un tradizionalismo che leggendo il suo testo mi ricorda il brodino per il malato: farà pure piacere, ma cosa risolve? Leggere l’inquietudine del tempo vuol dire orientarla, non diventarne schiavi. Non è proprio questo quello che tutti sentiamo come difficile, desiderabile, pauroso, necessario?
Se la teologia davvero osasse di “pensare le onde”, chiunque ci abita in mezzo, purché non abbia ostilità preconcette, ideologiche, la sentirebbe amica, forse interlocutrice, di certo vicina. Questa teologia sarebbe vicina perché non sarebbe un prodotto da politburo; non si astrarrebbe nella ricerca dell’interpretazione profonda del nuovo piano quinquennale, ma entrerebbe in dialogo con me, con chiunque, nelle onde.
La vecchia idea di fermarsi a contemplare le stelle per orientarsi non ci darebbe nulla in questa fase: le stelle sono coperte, piove a dirotto, le nubi incalzano tutti, ecco perché mi colpisce profondamente l’idea di rapidità. Così riconosco di aver sgranato gli occhi leggendo questo approdo che l’autore prende dal gesuita Claude Larre che commenta l’antico Tao Te King: “L’approccio contemplativo di Lao Tze intende il vivere come un’arte che si sposa al contesto e al fluire della realtà”.
Questo approdo per l’autore deve produrre una Chiesa che non abita solo porti sicuri, ma prendere casa anche nei luoghi esposti alle rapide, ai venti e pure alle burrasche. Se così fosse il mondo secolarizzato qui in Europa, quello al quale ritengo di appartenere, non sarebbe costretto a uscire dal guscio nel quale si va chiudendo, invece di restare abbracciato alla presunta razionalità del chiudere porte e finestre quando arriva burrasca?
Ad Ajaccio papa Francesco ha affermato che molti secolarizzati “non sono estranei alla ricerca della verità, della giustizia e della solidarietà, e spesso, pur non appartenendo ad alcuna religione, portano nel cuore una sete più grande, una domanda di senso che li conduce a interrogare il mistero della vita e a cercare valori fondamentali per il bene comune”.  Oggi il valore fondamentale per partecipare alla ricerca del bene comune per me è sentirmi in mare aperto.
Avverto una lezione di metodo indispensabile per chi cerchi i suoi valori in un cambiamento d’epoca. I tempi cambiano e i cristiani, fedeli al Vangelo, cambieranno leggendo i segni dei tempi.
Questo mi stimola a fare altrettanto, perché il metodo qui indicato mi dice che posso fare lo stesso, e non da solo, perché c’è chi riconosce la mia ricerca del bene comune, quella che guida qualsiasi secolarizzato che abbia inteso la sua idea di mondo come ricerca di spazi condivisibili.
Sposarsi al contesto nel fluire della realtà (per me senza congiunzione tra i due) è la sostanza della ricerca di senso per chiunque cerchi una maggiore inclusività, andando verso nuove frontiere pluraliste.  E così scopro che non può non essere centrale una voce che sa chiedermi di passare all’altra riva: saldo nell’amicizia con l’altro entro nel mare aperto; è questa ora la società del vivere insieme.

settimananews.it/societa/abitare-inquietudine-del-tempo/

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