“Che ci fanno queste anime
Davanti alla chiesa
Questa gente divisa
Questa storia sospesa
A misura di braccio
A distanza di offesa
Che alla pace si pensa
Che la pace si sfiora
Due famiglie disarmate di sangue
Si schierano a resa
E per tutti il dolore degli altri
è dolore a metà…
Le prime tre strofe di Disamistade di Fabrizio De Andrè si concludono con parole che segnalano un problema rivelato più che mai chiaramente dall’ultimo conflitto fra Israele e Palestina: “e per tutti il dolore degli altri è dolore a metà”. La regia del 7 ottobre è stata spiegata più volte, ma bisogna tornarci. L’orrore della strage di ebrei è stato studiato meticolosamente. Nulla è stato lasciato al caso. Hamas ha voluto evocare in loro, anche con quei particolari macabri che abbiamo letto o visto, un’idea di annullamento della dignità umana che è nel profondo della memoria del popolo ebraico, e che ha funzionato al di là del ricatto sugli ostaggi. Sapevano, i capi di Hamas, che solo così la reazione del governo israeliano sarebbe stata la più forte possibile e nello stesso tempo senza vie di uscita: l’occupazione militare di Gaza. Solo così l’osceno gioco del potere di Benjamin Netanyahu avrebbe potuto far leva su questo sentimento popolare, la necessità di combattere contro lo sterminio degli ebrei. Tutti sanno che la scadenza del mandato del primo ministro è legata alla fine delle ostilità. E tutti ora possono vedere quanto egli sia impegnato a rinviarla il più possibile. È il gioco semplice di un incastro drammatico. Ma che non sarebbe neanche cominciato, in un sistema democratico, se i terroristi non avessero preparato il terreno non di uno sterminio, ma della sua evocazione nella mente degli israeliani. Non voglio dire con questo che il conflitto, a cominciare proprio dalla strage del 7 ottobre, non abbia avuto cause maggiori, e piloti appena nascosti dietro gli schermi come l’Iran. Sto dicendo solo che il modo di riaprirlo con quella strage è stato unico, e consapevolmente, per suscitare il senso di unicità del popolo ebraico e una reazione militare corrispondente.
Da questo punto di vista, l’occupazione di Gaza porta all’estremo una reciproca intesa di fatto fra le due ali estreme, ovviamente mai dichiarata, che ha una lunga storia e una tragica scia di sangue. La differenza è che stavolta i morti si contano a decine di migliaia, e siamo ben al di sotto del “dolore a metà” di cui parla Disamistade. Intanto, le vittime non fanno parte della stessa famiglia dei terroristi, o ne fanno parte solo formalmente, visto che prima del 7 ottobre solo il 20 per cento degli abitanti di Gaza propugnava la distruzione di Israele. Ma ci sono certamente gli interessati a veder crescere il numero delle vittime per fini di propaganda. Se il primo ministro israeliano teme la pace, perché segnerebbe sicuramente la sua fine politica e forse qualcosa di peggio in termini giudiziari, per i capi di Hamas la contabilità dei morti a Gaza è fondamentale per confondere le carte della “causa palestinese”. Più aumentano i morti, più i capi di Hamas possono intestarsi il discredito generale che inevitabilmente sta colpendo Israele in quella che chiamiamo la comunità internazionale. Già ha fatto ovunque molta strada, senza contare lo storico rovesciamento del ruolo di vittima che col processo dell’Aja ha investito Israele. Si conferma allora che quattro mesi fa i calcoli di quanto sarebbe accaduto erano stati compiuti da menti raffinate. E qualunque soluzione politica dovrà ora tenerne conto.
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