Il momento della tenerezza e della gratitudine, ora, può incominciare a interiorizzarsi. Non per questo si deve liberare frettolosamente della sua commozione, per consegnarsi all’eccitazione mediatica – umana, ma persino troppo umana – del Conclave imminente. In questo spazio intermedio, per così dire, è possibile rendere onore agli impulsi buoni ereditati dal ministero di Francesco, guardando la realtà alla quale rimandano e che interpella la Chiesa. Mi limito ad evocare due orizzonti del cambiamento d’epoca che impongono una cultura cristiana radicalmente nuova, in cui è destinata a fiorire la nuova evangelizzazione.
Il primo potrebbe essere descritto così. La Chiesa di Gesù non si fa solo con quelli che “vengono in chiesa”. Quando si fa soltanto con quelli, la Chiesa perde slancio, smarrisce la missione, diventa autoreferenziale, si corrompe, persino. Il Papa Francesco si è speso appassionatamente per riacclimatarci con questa evidenza, in cui risplende la novità della rivelazione di Gesù. Lo ha fatto nel modo diretto, immaginoso, gestuale, delle sue parole e dei suoi atti. Lo ha fatto restituendo vigore alla novità evangelica della parola e della pratica degli interlocutori che Gesù si ritaglia fra gli uditori apparentemente meno adatti ad afferrare il passaggio del regno di Dio e a trovare la strada della fede. La Samaritana, la Cananea, Zaccheo, il Centurione, il Cieco, il Ladro, il Lebbroso e molti altri e altre. Figure accomunate dalla drammatica povertà di un’esistenza ferita, metafore della umana estraneità alla perfezione morale. Non convocate alla stessa sequela dei discepoli designati come testimoni e custodi del ministero che rende riconoscibile Gesù, fino a che “Egli venga”. Eppure, incluse nel perimetro evangelico dell’ekklesia – dell’assemblea che viene generata dalla parola e dall’azione di Gesù (LG, 9). E non di rado gratificate esplicitamente con il riconoscimento di una fede che “salva”.
Impareremo ad abitare istituzionalmente e allegramente questa Chiesa “allargata” (che Paolo VI aveva già perfettamente descritto, nella sua inascoltata enciclica Ecclesiam suam, del 1964)? La riabilitazione della sinodalità, la più inclusiva possibile (“Tutti, tutti, tutti”) ha già mostrato l’imbarazzo di una Chiesa non più assuefatta all’ampiezza dell’assemblea di Gesù. Riacclimatarsi con la missione – aprire il regno di Dio, prima che ampliare l’istituzione – farà la differenza.
Il secondo tratto, potremmo evocarlo in questo modo. Il mondo attuale va, in ordine sparso, verso “la guerra mondiale a pezzetti”. Questo effetto globale di disseminazione della violenza predatoria, che sta contaminando anche i legami individuali, è generato dall’erosione dei dispositivi di neutralizzazione delle pulsioni proprietarie e auto-celebrative dell’ego. Prima che i “pezzetti” della violenza liberalizzata si saldino fra loro irreversibilmente, è dunque urgente lanciare una visione “profetica” della loro drammatica stupidità. Certo, l’accelerazione esponenziale della tecnocrazia, in questo, non aiuta. L’algoritmo rilascia una potente e seduttiva esibizione di superiore razionalità. In questo quadro, anche il puro richiamo dei valori del buon tempo andato sta a zero. L’azzardo del seme evangelico, oggi, è la mossa più razionale. Si tratta di gettare il cuore oltre l’ostacolo e applicarsi alla creazione di una lingua umanistica che apprende dall’esperienza del suo svuotamento e del suo scarto.
La “fraternità”, come orizzonte del carattere generativo e non distruttivo, della convivenza civile, è certamente una categoria del linguaggio cristiano che contrasta il nichilismo dell’auto-realizzazione. Il cristianesimo però, non potrà riaccendere la scintilla della sua portata antropologica – e non solo mistica – senza elaborare una cultura politica in grado di affezionare la coscienza e di renderne praticabile la libertà.
Forse, dovremo cessare di considerare semplici “paradossi” evangelici le istruzioni di Gesù sull’amore ai nemici che ci rende umani, sulla spesa della propria vita per guadagnarla, sulla capacità dei padri di emozionarsi per il figlio ritrovato, sulla festa del cielo per una conversione umanamente impensabile. In queste figure limite della radicalità evangelica, si nasconde però un’antropologia ancora inesplorata che dobbiamo “inventare”, portare alla luce e mettere in rete. Più colta e più credente della santa ignoranza che rimuove dalla fede il pensiero, più dialettica e più smaliziata del goffo neo-liberismo che accumula profitto senza decenza e senza senso.
Esistono forze, religiose e laiche, che condividono la crisi di rigetto e sono disponibili all’alleanza. Saremo capaci di trarre dalla fede evangelica la cultura di un umanesimo civile che seppellisce di vergogna le nuove impunità del delirio di onnipotenza (religioso, economico, o tecnocratico che sia)?
avvenire.it/opinioni/pagine/la-chiesa-non-si-fa-solo-con-chi-viene-in-chiesa