Non si tratta più di discutere se gli ebrei del mondo hanno diritto alla loro repubblica. Ce l’hanno, come gli italiani, i curdi, i francesi e tutti gli altri. Se ancora si dovesse discutere di questo si dovrebbe tutt’al più concentrare l’attenzione su questa similitudine: “come gli italiani” e tutti gli altri. E così sembrava che fosse all’inizio. Poi una maggioranza residente là ha imboccato – dal 2018 con rivendicazione di legge – un carattere razziale dello stato che ha definitivamente lanciato Israele nella china che oggi la porta a presentarsi ben più simile a una repubblica teocratica di stampo iraniano che non a una repubblica come la nostra.
E allora che significa che “Israele è finita”? Significa che il primo tentativo durato quasi ottant’anni di fondare e costruire uno stato nazionale come repubblica democratica è abortito. È naufragato nell’identificazione di quello stato in una replica degli stati razzisti e coloniali che a più riprese nei secoli hanno perseguitato gli ebrei con pogrom e leggi che li hanno costretti all’eterna diaspora. E dunque quando diciamo che è finita non mettiamo in discussione il diritto di una nazione alla sua repubblica, mettiamo in discussione il diritto di quello Stato a continuare a rappresentare quella nazione nel consesso delle nazioni libere.
Sapranno gli israeliani democratici liberarsi del governo razzista che, col consenso di gran parte dei residenti, apparentemente la maggioranza, controlla quello Stato, quelle istituzioni, quell’esercito, quelle colonie? Se questo accadrà le affermazioni precedenti saranno destituite di fondamento, ma al momento lo stato di Israele è in mano a un comando razzista, coloniale e sterminatore. Unica possibilità di riscatto dei residenti democratici e degli ebrei del mondo è passare a riconoscerlo con franchezza e chiedere il consenso dei popoli, che certamente spetterebbe loro, a una rifondazione integrale di quello stato finito male. Qualcosa di simile almeno al Quarantasei italiano, se non si vuole spingere a un processo tipo Troisième République, nel quale Netanyahu andrebbe trattato come un Napoleone III (e il paragone sarebbe offensivo per il francese).
L’ingiusta identificazione della totalità degli ebrei del mondo con quello Stato, che bene fanno tanti osservatori democratici a segnalare, potrebbe essere vanificata con più facilità se il fallimento del primo tentativo di Ritorno (la fondazione di uno Stato proprio) fosse riconosciuto. Riconosciuto almeno dagli “osservatori democratici” che inspiegabilmente non riescono a completare l’appercezione di questa realtà politica, che niente ha a che fare con una gloriosa storia di resistenza identitaria nei secoli: il primo tentativo è fallito, se gli ebrei vorranno rinnegare non – si badi – l’idea di un proprio stato e il diritto ad esso, ma la degenerazione in cui è caduto il primo tentativo, il mondo dovrà nuovamente accoglierne lo sforzo e aiutarli come ha fatto la prima volta.
Certo è molto difficile chiedere ad essi ebrei di riconoscere che “due popoli e due stati” è un’aspirazione che oggi vede entrambi quei popoli al grado zero: due popoli degni come tutti gli altri, ma uno schiacciato dalla miseria in cui lo ha costretto la soperchieria dell’altro insieme alla paranoica gestione da parte della struttura di morte di Hamas, che alimentata da quella soperchieria ha potuto prosperare, e l’altro schiacciato nella bambagia di televisioni e spiagge e ristoranti e perfino benessere che lo droga e lo asservisce al disegno suprematista del gruppo sanguinario al potere. Diretto, tra l’altro, da un ricercato internazionale costretto ad alimentare guerra e sangue per impedire ai cittadini democratici di portarlo davanti a un tribunale.
I tempi per questo riconoscimento sono maturi. Le catene che hanno ammanettato due concetti chiave della storia ai carri armati dell’IDF – genocidio e antisemitismo – sono fortunatamente molto arrugginite e si possono spezzare. Il mondo comincia a riconoscere che la Shoah è “il” genocidio che ha marcato il XX secolo consegnandolo agli annali ma è “un” genocidio che non chiede più lacrime del genocidio armeno o del genocidio palestinese oggi in corso. Restituiteci le nostre parole. E la rabbiosa accusa di “antisemita” che viene scagliata dagli integralisti ebraici contro chiunque esprima una critica allo stato di Israele, dimostra una confusione di idee e di concetti ben al di sotto dell’acume che una tradizione largamente condivisa riconosce al pensiero ebraico, tradizione di convincimento che quella rabbia sta contribuendo a demolire.
E’ questa rabbia che spiega la volgarità con cui Sideman Yaron, ambasciatore di Netanyahu a Roma (ricordo che gli ambasciatori rappresentano lo stato, e i consoli rappresentano il governo, né gli uni né gli altri rappresentano il popolo di cui espongono bandiera) ha aggredito il vescovo di Manfredonia, accusandolo nientemeno che di “corruzione morale” per aver restituito a questa parola – genocidio – il ruolo che le spetta nel discorso umano, dal quale la propaganda razzista israeliana la ha sequestrata. Restituiteci le nostre parole.
Non c’è dunque una sconfitta dell’ebraismo nella vergogna di Israele. Bisogna solo aprire gli occhi. L’afflato sionista post-herzliano, democratico e venato di socialismo, è stato sconfitto dal sionismo suprematista. Ciò che si è rotto non è l’ebraismo, è la sua unità obbligatoria intorno al primo tentativo. Aspettiamo con ansia un’altra Israele, e intanto isoliamo consoli e ambasciatori di morte.
(economista, dottore in filosofia)