La prima ondata (2010-2011) delle Primavere arabe – le rivolte popolari e di risveglio delle società civili arabe contro l’autoritarismo – è stata immediatamente seguita da un periodo classificato dai media occidentali come “Inverno arabo”, essenzialmente perché dominato dall’ascesa di partiti islamisti al potere. A parte le denominazioni semplificatorie dettate dai ritmi serrati della produzione di notizie – che mal si adattano allo sviluppo di lunghe fasi storiche, tant’è che i semi “rivoluzionari” gettati allora stanno lentamente ancora germogliando in vari campi, e non solo in quello politico-istituzionale – anche la stagione in cui le organizzazioni islamiste capitalizzarono i successi dei movimenti di piazza è andata scemando. A distanza di dieci anni, non si è assistito a un simile protagonismo dell’Islam politico durante la seconda ondata (2019), quando anche paesi come l’Algeria, il Sudan, il Libano e l’Iraq sono stati sconvolti da movimenti insurrezionali che hanno determinato la caduta di presidenti o primi ministri in carica da decenni. È poi arrivata, nel dicembre 2024, la sorpresa siriana, ovvero l’epilogo della decennale guerra civile che è stata l’opera di “ribelli” provenienti da un’ala jihadista della galassia islamista: il raggruppamento politico siriano, Hayat Tahrir al-Sham, da quando ha assunto il controllo dell’intero paese sembra in una fase di deradicalizzazione.
L’islamismo, che può essere considerato la più longeva tra quelle ideologie transnazionali che hanno attraversato le frontiere del mondo arabo dall’inizio del secolo scorso, sta attraversando oggi fasi alterne, tra ascesa, declino e assestamenti variabili. Ciò che pare comunque certo è che, pur essendo un pensiero di tipo estremista e d’ispirazione anche per formazioni dedite alla lotta armata, è in generale di stampo non-violento. Per anni, i movimenti a esso legati sono stati banditi dai governi nazionalisti, ma oggi tale ideologia rappresenta la base teorica di partiti e organizzazioni che, seppur ancora osteggiati, sono ormai parte del panorama politico dei paesi arabi dell’ampia regione MENA che dal 2011 è in continuo divenire.
La galassia islamista e l’utopia dello Stato islamico
Alla fine degli anni Settanta, nel vuoto lasciato dal crollo del panarabismo – che aveva fatto sognare le masse popolari arabe, propagandando l’unione di tutti gli arabi come presupposto per il loro riscatto dai retaggi dell’imperialismo e soprattutto per l’eliminazione di quella che era considerata la sua propaggine per eccellenza, lo Stato di Israele – si insinuò un’altra potente ideologia: l’islamismo politico. Il fallimento nel contrastare l’invincibilità del sionismo da parte del panarabismo, un pensiero che era peraltro di natura laica e socialisteggiante, era dovuto, secondo i movimenti islamisti che proliferarono in tutti i paesi del Maghreb e del Mashreq, al fatto che tale corrente di pensiero era in realtà lontana e avulsa dalla vera forza dei popoli arabi, l’Islam. La risposta allo spaesamento e al senso di inferiorità post-1967 e post-1979 doveva invece essere ricercata nelle origini e nella tradizione musulmane, ovvero nell’esempio dei compagni del Profeta Muhammad, i salaf.
Tale filone intellettuale, figlio del riformismo islamico sviluppatosi dalla fine dell’Ottocento, è oggi denominato in modi differenti: salafismo, radicalismo o fondamentalismo islamico per l’idea del recupero del messaggio dei virtuosi antenati, delle radici e dei fondamenti della religione islamica all’epoca della sua rivelazione; oppure Islam/islamismo politico o semplicemente islamismo per l’uso politico di una tale rielaborazione dell’ordine generale delle cose, sia sul piano individuale che sociale, con lo scopo finale nella costituzione di uno “stato islamico” sul modello di quello fondato a suo tempo da Muhammad a Medina. Per raggiungere tale rivoluzione delle contemporanee società musulmane, ritenute dimentiche delle proprie radici e orfane della purezza di un tempo, le organizzazioni islamiste promossero una “reislamizzazione dal basso”, da realizzarsi in due modi differenti. Il primo era attraverso l’educazione e la predicazione a cominciare dagli strati più poveri della popolazione, che erano assistiti anche nei loro bisogni primari tramite un welfare alternativo a quello di Stato: fu questo il modus operandi dei Fratelli Musulmani (“Ikhwan al-muslimun”), la più potente formazione islamista, fondata alla fine degli anni Venti in Egitto dal maestro elementare Hassan al Banna (1906-1949). Oppure, l’altra strada verso la costituzione di uno Stato islamico doveva passare, secondo Sayyid Qutb (1906-1966), un “Fratello” che sviluppò in senso radicale la dottrina di Al Banna e che fu fortemente influenzato dal salafismo wahabita dell’Arabia Saudita, dall’azione violenta contro i governi considerati impuri, reinterpretando il concetto di jihad. La deriva dell’islamismo politico, che è di per sé un’ideologia pacifica anche se di stampo (ultra) conservatore circa costumi e pratiche quotidiane che deve adottare il “buon musulmano”, è appunto il “jihadismo” che di religioso non ha più praticamente nulla. Ma che, servendosi di alcuni messaggi islamici e riadattandoli a suo uso e consumo, è alla base di movimenti e gruppi terroristici che dalla fine degli anni Settanta organizzarono attentati contro i governi arabi “corrotti”, e poi in una seconda fase, anche contro il mondo occidentale e Israele. Gli scritti di Qutb sono stati e sono ancora oggi di ispirazione per movimenti e gruppi terroristici: da Al Jihad, che riuscì a uccidere, il 6 ottobre 1981, il presidente egiziano Anwar Sadat, ad Al jabha al islamiyya lil inqadh (il Fronte islamico di salvezza, FIS) protagonista della guerra civile algerina negli anni Novanta, sino ad Al Qaeda, ISIS e tutte le loro costellazioni, per citare solo i casi più noti. Il jihadismo violento rappresentò la crisi e la deriva dell’islamismo della Fratellanza musulmana e delle altre organizzazioni similari, che rimasero tendenzialmente non violente e, anzi, perennemente in cerca della legittimazione come attori politici, lasciando sempre più sullo sfondo l’utopia di (ri)costituzione dello Stato islamico delle origini dell’Islam.
L’islamismo di governo alla prova
Il primo partito islamista a essere legalizzato nel mondo arabo fu il FIS algerino, che vinse le elezioni nel 1990-1991. Non poté però essere messo alla prova di governo, dato che i vertici militari assunsero tutti i poteri con un colpo di stato nel gennaio 1992, al quale fecero seguito dieci anni di conflitto interno tra jihadisti ed esercito. Già allora in Algeria si assistette al sodalizio tra forze politiche che difendevano la democrazia e le libertà appena conquistate e le gerarchie militari che si fecero garanti, in modo anti-democratico, della difesa di tali valori. E già allora quelle stesse forze dovettero poi subire i contraccolpi dell’affermazione di un nuovo autoritarismo, che attingeva dalla lotta al terrorismo la sua legittimità. In modo simile, un “colpo di stato popolare”[3] guidato dall’esercito e sostenuto da milioni di egiziani, portò alla fine dell’esperimento al potere di Mohammed Morsi, primo presidente dei Fratelli musulmani alla guida dell’Egitto, tra il 2012 e il 2013.
Nei primi anni Duemila erano saliti al potere altri due partiti islamisti nella regione: il partito Giustizia e Sviluppo turco (AKP, dalla sigla originale) di Recep Tayyip Erdoğan, che dal 2002 è la principale forza parlamentare nel paese, e Hamas, che in Palestina aveva vinto le elezioni del 2006. Sono due organizzazioni, legate al radicalismo islamico, al governo da molti anni, entrambe con un’impronta fortemente nazionalista, ma operanti in due contesti completamente differenti. L’AKP ha imposto un governo di tipo semi-autoritario e populista che utilizza i temi dell’Islam politico sia come marchio identitario, in contrapposizione al modello di sviluppo e di democrazia occidentale e laicista, sia come base per una politica di influenza regionale, presentandosi come leader del mondo musulmano, in difesa, in particolare, della Fratellanza musulmana regionale. Un modello che porta i suoi frutti, visto il perdurante consenso popolare interno e il ruolo attivo della Turchia nei conflitti regionali. Nella Striscia di Gaza, invece, sin dal 2007 governa Hamas, un’altra organizzazione islamista che utilizza la violenza terroristica come metodologia di “liberazione” nazionale. Osteggiata da un embargo internazionale, Hamas ha sempre legato il suo salafismo e la sua identità movimentistica più alla lotta nazionalista per uno Stato indipendente palestinese – quindi in guerra contro Israele – che all’obiettivo ultimo dello Stato islamico in sé e per sé.
In Tunisia ed Egitto gli islamisti non erano stati né gli animatori né gli organizzatori delle Primavere arabe, ma dopo anni di militanza e di islamizzazione dal basso tra illegalità e tolleranza da parte dei regimi, con strutture amministrative ben funzionanti e ramificate nei territori (dalle madrase alle associazioni di varie categorie professionali) si erano presentati alle prime elezioni libere come le uniche forze organizzate alternative ai regimi autoritari spazzati via dalle proteste, ottenendo ottimi risultati. Si è quindi assistito nei due paesi a esperimenti di governo che sono stati entrambi fallimentari. Le logiche claniche e settarie tipiche delle due organizzazioni hanno prevalso nella gestione dello Stato, proiettandosi su scala maggiore e quindi con l’obiettivo di accaparrare più posizioni di comando possibile nell’amministrazione statale per i loro membri. Il risultato, soprattutto in Egitto, è stata l’incompetenza di governo di tanti Fratelli posti a guida di ministeri chiave o nei ruoli apicali della gestione amministrativa. La crisi economica e quindi la diffusa mancanza di sbocchi lavorativi, che erano state alla base del malcontento sfociato nelle Primavere arabe, non furono in alcun modo risolte dai governi a guida islamista. I due aspetti messi insieme – incapacità di governo e mancato miglioramento delle condizioni economiche – porteranno alla formulazione dell’accusa più diffusa tra gli avversari degli islamisti, quella di corruzione. A ciò si aggiunse un affondo su temi identitari per i partiti dell’Islam politico – come il ruolo delle donne nella società, l’adozione della shari’a, l’adesione alla grande ‘umma islamica – che si contrapposero a quelli laici e nazionalisti di una fetta della popolazione, portando a una polarizzazione nella società. Se l’esperienza di governo di Ennahda è stata più collaborativa e dialogante con le altre forze politiche, anche perché molto più lunga nel tempo (2011-2021), in entrambi i paesi c’è stato, nel 2013 (Egitto) e nel 2021 (Tunisia), il ritorno di forze nazionaliste-autoritarie e populiste – ma non partigiane dell’Islam puro – che hanno non solo messo da parte gli islamisti, ma li hanno anche criminalizzati e perseguitati, estromettendoli di fatto dalla vita politica istituzionale del paese. Secondo alcuni studiosi, mentre le Primavere arabe avevano voluto distruggere l’autoritarismo di Stato ma non gli Stati nazionali così come formatisi dopo la colonizzazione, l’islamismo al governo aveva avuto l’obiettivo ultimo di erodere dalle fondamenta tali architetture statali.
L’esperienza di governo islamista più lunga nel Nord Africa, conclusasi non tragicamente ma con una fisiologica alternanza al potere è stata quella del partito Giustizia e Sviluppo marocchino (conosciuto come PJD, dall’acronimo francese). La storia del partito detto anche della Lampada, dal simbolo che lo contraddistingue, è quella di una deradicalizzazione: dal jihadismo del suo antenato attivo negli anni Ottanta (Shabiba islamiyya, “Gioventù islamica”), verso l’accettazione della democrazia e del ruolo del sovrano come “guida dei credenti” nel 1998, seguita dalla vittoria nelle elezioni e quindi dall’esperienza decennale di governo (2011-2021). Contrasti interni, scandali e mancanza di una forte leadership sono le cause alla base della perdita di consensi del PJD, che dopo la clamorosa sconfitta elettorale del 2021 ha ricominciato a cavalcare temi identitari del radicalismo islamico connessi alle questioni dell’eredità femminile, dell’omosessualità o dell’adulterio rinnegando anche di essere stato in qualche modo complice degli accordi di normalizzazione del 2020 con l’avversario per eccellenza dell’islamismo, ovvero lo stato d’Israele.
L’islamismo come deterrente del jihadismo?
La sfida dell’islamismo politico non è più oggi quella di essere accettato come forza politica presente in praticamente tutti i paesi dell’area MENA. Lo è ormai di fatto. Al netto dell’ostruzionismo e della repressione di cui ancora sono vittime alcuni partiti e movimenti della galassia islamista, quello che conta è il discrimine tra chi pratica la violenza come arma politica, chi non l’ha mai contemplata come mezzo per ottenere il potere – come è il caso dei Fratelli musulmani giordani che sono sempre stati un’associazione/partito legali e non-violenti – o ancora chi l’ha rinnegata, adeguandosi alle regole della democrazia e del pluralismo politico (nei modi sui generis propri a ciascuno stato). Il dato di fatto della presenza nella regione (con ramificazioni sino in Europa) del radicalismo islamico come attore politico al pari di tutti gli altri è dovuto banalmente alla persistenza di un elettorato di base che si riconosce nel suo messaggio identitario conservatore (opposto al laicismo occidentalizzante), nei suoi valori tradizionalisti, nel rigorismo e nella castità dei modi e dei costumi propri del “pio” musulmano. La sfida dell’islamismo è semmai oggi quella di relazionarsi e rappresentare, nell’agone politico, questa parte della popolazione, evitando così che finisca per abbracciare l’estremismo violento. L’islamismo, se considerato una forza politica come le altre con il suo spazio di manovra e il proprio bacino di utenza, può allora sia arginare la sua deriva jihadista, sia prepararsi all’eventuale azione di governo partendo da una posizione paritaria rispetto alle altre forze politiche e non da una base contestataria o di lotta che lo porterebbe ad avere un atteggiamento vendicativo e/o di guerra tutti contro tutti una volta al potere.
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