Negli ultimi anni, il mercato del lavoro dell’area dell’euro, e in particolare quello italiano, hanno vissuto trasformazioni significative, in gran parte influenzate dai cambiamenti demografici. Secondo un recente studio della Banca Centrale Europea (BCE), il tasso di disoccupazione ha raggiunto il livello più basso dalla nascita dell’euro, attestandosi al 6,3% nell’ottobre 2024. Questo calo, nonostante l’aumento della forza lavoro del 3,5% tra il 2021 e il 2024, suggerisce una stretta relazione tra le dinamiche demografiche e l’occupazione. L’incremento della partecipazione al mercato del lavoro ha riguardato tre categorie principali: i lavoratori non UE (+24,7%), i lavoratori più anziani (+9,9%) e quelli con istruzione terziaria (+7,9%). Queste componenti non solo sono cresciute in termini numerici, ma hanno anche mostrato tassi di partecipazione più elevati. Se prendiamo il caso italiano, nello stesso arco di tempo, l’andamento dei lavoratori anziani è leggermente superiore alla tendenza europea ed è su questa componente del mercato del lavoro che è interessante concentrarsi. Sappiamo che gli over 50, nell’ultimo decennio, stanno prolungando la loro permanenza nel mercato del lavoro grazie a riforme pensionistiche (nel caso italiano la riforma Fornero che ha alzato a 67 anni l’età pensionabile), una maggiore domanda di competenze esperte e un generale miglioramento delle condizioni di lavoro che consentono una permanenza maggiore soprattutto in certi lavori e certe mansioni. Secondo i ricercatori della BCE il loro tasso di disoccupazione, pari al 4,4% nel terzo trimestre del 2024, è inferiore rispetto a quello dei lavoratori adulti (5,8%). Se il loro livello di occupazione fosse rimasto invariato rispetto al 2021, il tasso di disoccupazione complessivo sarebbe stato più alto di 0,3 punti percentuali. Nel caso italiano il tasso di disoccupazione degli over 50 si distacca ancora di più dalla media generale (2,8% rispetto al 5,7%). Questo suggerisce anche un impatto di queste grande crescita di occupati over 50 su altri aspetti qualitativi del mercato del lavoro. Uno di questi, sul quale ci si è giustamente concentrati molto, riguarda la forte crescita di occupati a tempo indeterminato. Se prendiamo l’andamento di questi occupati dividendolo per età scopriamo che, dal 2015 a oggi (terzo trimestre 2024), tra i 15 e i 34 anni i lavoratori a tempo indeterminato sono cresciuti di 493mila unità, tra i 35 e i 49 anni sono diminuiti di 629mila unità e in quella degli over 50 anni sono cresciuti di ben 1,88 milioni. In sintesi, gli occupati a tempo indeterminati sopra i cinquant’anni sono cresciuti quasi quattro volte in più di quelli sotto i 35 anni. Certamente incide una storica concentrazione di contratti temporanei tra i giovani, ma non è sufficiente a spiegare un tale andamento per il quale l’invecchiamento della forza lavoro e la maggior permanenza nel mercato del lavoro restano le spiegazioni principali. Un ulteriore elemento che si lega a questa dinamica è la riduzione dell’inattività sul quale incide, appunto, l’allungamento delle carriere lavorative.
Concentrarsi su questa dinamica non vuol dire cercare di rovesciare una narrazione positiva dell’andamento del mercato del lavoro italiano. I dati dell’ultimo decennio rispetto a occupazione, disoccupazione e inattività sono positivi tanto in Europa quanto in Italia, ed è bene ribadirlo. Allo stesso tempo la forte presenza dell’impatto demografico e delle riforme pensionistiche tra le cause di questo andamento deve aprire alcuni importanti interrogativi, ne citiamo due in particolare. Il primo riguarda il rapporto tra la crescita occupazionale e la produttività. La crescita dell’occupazione, in Italia, non si è accompagnata da una crescita parallela del valore aggiunto e questo ha fatto sì che negli ultimi anni la produttività del lavoro crescesse molto poco e, addirittura, rallentasse significativamente nel 2023 (l’ultimo dato disponibile). Una crescita occupazionale che deriva in larga parte dal permanere di persone over 60 nel mercato del lavoro, magari impiegati in mansioni che difficilmente riescono a svolgere come in passato o posti davanti a esigenze di riqualificazione professionale che non vengono affrontare, si traduce in effetti negativi sulla produttività con le conseguenze che ben conosciamo, in primo luogo sui salari. Questo dovrebbe interrogare, in uno scenario inedito per il nostro Paese di crescita forte di una certa fascia di occupati, su cosa significhi rendere sostenibile, sia in termini di attività svolte che in termini di competenze e aggiornamento professionale, il lavoro dei lavoratori più maturi. Il secondo elemento da considerare è invece più legato all’andamento della tendenza demografica e riguarda lo scenario che si aprirà con il pensionamento, seppur ritardato della generazione dei baby boomer. Lo svuotamento di questa coorte anagrafica avrà un forte impatto sul mercato del lavoro perché non verrà compensato da quelle successive, molto più ridotte come numero anche se con livelli di istruzione maggiori. Questa dinamica dovrebbe fin da subito orientare le politiche del lavoro e le politiche dell’innovazione sia rispetto al rapporto tra flussi migratori e lavoro sia rispetto al ruolo che l’automazione può avere, senza timori, nella sostituzione di determinati lavori senza che tale dinamica sia totalmente nelle mani di chi sviluppa le tecnologie. L’alternativa sarà la duplice scure di un’economia meno produttiva, più povera e destinata allo svuotamento.
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