Le vere cause della guerra commerciale, di Federico Rampini

Con i dazi Donald Trump sembra essersi messo quasi tutti contro. Non solo i paesi colpiti, ma un coro bipartisan di economisti americani li condanna. L’atmosfera è riassunta dal Wall Street Journal: «La più stupida guerra commerciale della storia». L’editoriale del giornale economico elenca puntigliosamente i molteplici viaggi che un’automobile americana in fabbricazione compie tra Usa, Canada e Messico, per incorporare componenti prodotti nei tre paesi: è la logica dell’efficienza e della riduzione dei costi, ora compromessa dai dazi. Non a caso le oligarchie economiche (se vogliamo adottare la definizione di moda) che talvolta vengono descritte come un potere compatto dietro Trump, sono divise, turbate, tavolta apertamente contrarie alla guerra commerciale.
Ma è verosimile che Trump abbia perso di colpo il suo istinto politico, e stia dilapidando consensi così presto? In realtà ieri ha già incassato un successo, di immagine e non solo. Messico  e Canada hanno annunciato di aver fatto concessioni su flussi migratori, narcotraffico e scambi commerciali, grazie alle quali i dazi del 25% sono sospesi per un mese, appena 48 ore dopo il loro annuncio. Fin dall’inizio questa è stata una delle funzioni delle tasse doganali: arma di pressione, strumento di negoziato. Su migranti, Fentanyl, squilibri commerciali, Trump ha già avanzato le sue richieste a Messico, Canada e Cina. L’Unione europea è pronta a seguire Messico e Canada: capire quali sono le priorità di Trump, venirgli incontro, limitare i danni.
Tutti sanno che la grande partita dei dazi ha le caratteristiche di una guerra asimmetrica. L’America è la più grande economia del mondo, ha il mercato più aperto di tutti (malgrado le ondate di dazi già decisi in passato da Trump e Biden, le sue barriere sono molto inferiori a quelle della Cina), importa dagli altri più di quanto gli altri le comprano: quindi tutti hanno da perdere molto più di lei, nel gioco delle ritorsioni. Un precedente interessante nell’accordo col Messico, è la decisione di quest’ultimo di limitare le importazioni dalla Cina: può servire anche agli europei.
C’è un’altra ragione per cui Trump non teme, almeno per adesso, l’impopolarità. Le radici del suo protezionismo risalgono agli anni Novanta, quando si consumò un «tradimento delle élite» ai danni della classe operaia americana. L’antenato di Trump – politicamente parlando – era l’imprenditore informatico texano Ross Perot. Si candidò alla Casa Bianca come indipendente facendo campagna su un tema unico: gli accordi di libero scambio allora in gran voga, secondo lui avrebbero delocalizzato l’industria americana e distrutto milioni di posti di lavoro. Il messaggio di Perot non venne raccolto né dai repubblicani (i Bush padre e figlio) né dai democratici (Clinton, Obama). Le frontiere continuarono ad essere abbattute per un ventennio. Gli economisti, un coro bipartisan, promettevano che l’Età dell’Oro della globalizzazione avrebbe garantito prosperità a tutti. Lo stesso coro annunciava una società multietnica armoniosa e prospera: l’immigrazione illimitata avrebbe reso tutti più ricchi. Non è andata proprio così. 
Il tradimento delle élite alimentò il risentimento nelle classi lavoratrici: aggravato dalla crisi finanziaria del 2008, quando Bush-Obama salvarono i banchieri a spese dei contribuenti, ma in milioni persero il lavoro. La parabola politica di Trump affonda le sue radici in quei traumi sociali di massa. Tecnocrati e accademici da allora sono stati percepiti come inaffidabili, venduti agli interessi dei veri vincitori della globalizzazione, quelle grandi imprese che hanno fatto fortuna con le delocalizzazioni, e che continuano a volere le frontiere aperte a merci e persone (nel caso dell’immigrazione, per sfruttare la manodopera straniera a buon mercato).
L’America in realtà ha digerito piuttosto bene l’era della globalizzazione. Oggi è l’economia più dinamica, infligge a tutti gli altri distacchi crescenti, negli ultimi anni è riuscita persino a ridurre le diseguaglianze grazie al forte aumento dei salari operai. È rimasta tenace però la diffidenza verso le élite (ha giocato un ruolo anche durante la pandemia). E sui dazi Trump manda un segnale che la sua base decifra facilmente: se lui è costretto a scegliere tra gli interessi delle oligarchie capitaliste e quelli del mondo operaio, non esita a sfidare le ire del Wall Street Journal. I cori di condanna degli economisti non lo spaventano. D’altronde è singolare la reazione dei mercati a queste avvisaglie di guerra commerciale.
Le Borse soffrono, riflettendo i timori delle oligarchie sui danni ai profitti delle imprese. Il dollaro invece sale, i capitali dal resto del mondo affluiscono negli Stati Uniti, gli investitori stranieri evidentemente ritengono che l’America uscirà vincente anche da questa prova. Di qualunque prova si tratti: protezionismo vero e duraturo, o minaccia usata per ottenere concessioni.

corriere.it/opinioni/25_febbraio_03/le-vere-cause-della-guerra-commerciale-70e74525-80d1-4b85-aa52-fce65a3aaxlk.shtml?refresh_ce

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