Sentir gridare «America first!» smuove la memoria e ci fa ricordare che in Europa si è cantato «Deutschland über alles!». Tutto già sentito: la retorica politica non ha molta fantasia.
«Berlino, 27 giugno 1932. All’interno del Grünewald Stadium, 120 mila persone ascoltano rapite uno strano dialogo, sparato a tutto volume dagli altoparlanti. È un botta e risposta tra il militaresco e il religioso, con una voce che chiede: “Chi è responsabile della nostra miseria?” e un coro che replica all’unisono: “Il sistema!”. “E chi c’è dietro il sistema?” prosegue la voce. “Gli ebrei” fa eco il coro. Il dialogo continua grosso modo così: “Che cos’è per noi Adolf Hitler?”. “Una fede!”. “E cos’altro?”. “La nostra unica speranza”. Infine la voce grida “Germania!”. E l’intero stadio ribatte all’unisono: “Risvègliati!”». C’erano anche i Deutsche Christen, i Cristiani Tedeschi ad acclamare “Heil Hitler!”.
La reazione delle Chiese
Due anni dopo, però, sorgeva la Bekennende Kirche e la Chiesa confessante, sotto la spinta di Carlo Barth, di Bonhoeffer e di Martin Niemöller (gli ultimi due pagheranno con la vita) si levava a denunciare gli elementi pagani, razzisti e nazionalisti dell’ideologia del Terzo Reich.
Nel maggio del 1934, in una chiesa del quartiere periferico di Barmen (distretto di Wuppertal), nel Rheiland-Westfalen, si riunivano i rappresentanti di diverse Chiese evangeliche, luterane, riformate e di altre denominazioni. Quel Sinodo rimarrà celebre nella storia. Alle grida che risuonavano tutto all’intorno: “Chi è per noi Hitler? Una fede!” e “Qual è la nostra unica speranza? Deutschland!” alle Chiese si imponeva di proclamare di nuovo una Confessione della Fede. La dichiarazione teologica di Barmen, riaffermando la fede in Gesù Cristo come l’unico Signore e rifiutando il Führerprinzip, il riconoscimento di un altro capo assoluto, fu il primo atto di resistenza cristiana al nazismo, segnò l’assunzione da parte delle Chiese delle responsabilità politiche che loro spettano di fronte alle ingiustizie e costituì l’avvio di un rinnovamento dell’ecclesiologia protestante.
In questi nostri giorni, il clamore dell’inaugurazione del suo mandato di presidente degli Stati Uniti da parte di Donald Trump, la violenza dei suoi discorsi, la violazione verbale del rispetto della dignità della persona umana, a qualunque popolo appartenga e in qualsiasi luogo e situazione si trovi, le innegabili venature di razzismo dei suoi giudizi sui migranti, la dirompenza dei suoi primi atti legislativi ci stanno riportando alla memoria quanto accadeva nella Germania degli anni Trenta del secolo scorso.
Arroganza e disprezzo
Non siamo, per grazia di Dio, a quel livello di tragica gravità. Ma osservare, qua e là, nell’arroganza dei discorsi di Trump e nelle prime mosse della sua amministrazione, alcune lampanti analogie, fa impressione e preoccupa non poco.
Che il presidente degli Stati Uniti, al momento dell’inaugurazione del suo mandato, dichiari: «Dio mi ha salvato per far sì che l’America possa ritornare grande. L’età dell’oro comincia adesso» non può non mettere in guardia chiunque ha buona memoria. Ecco, infatti, che egli promette: «Non dimenticheremo mai il nostro paese, la carta costituzionale e soprattutto il nostro Dio» e in nome di quel suo Dio inaugura l’età dell’oro, mandando truppe al confine col Messico contro i migranti, proponendo la deportazione della popolazione di Gaza in Egitto e promettendo agli americani un futuro di nuove conquiste: «Ci riprenderemo il canale di Panama», intrecciandovi qualche minaccia alla Danimarca di invadere e impossessarsi della Groenlandia e al Canada di spostare qualche tratto dei suoi confini «Make America great again!».
La politica di accoglienza dei migranti viene assimilata a un’offerta di ospitalità a «criminali pericolosi, molti dei quali provengono da prigioni e istituzioni psichiatriche che sono entrati illegalmente nel nostro Paese da ogni parte del mondo». Per contrastare «la disastrosa invasione del paese» da parte di “bande criminali” di tutte le provenienze, viene promessa una politica di espulsioni e respingimenti, e una “grande deportazione”.
Difficile non rendersi conto dell’aria di razzismo che si respira in questo disprezzo della massa dei poveri che premono ai confini degli States, né basta a dissolverla la dovuta formale promessa di por fine «alla politica governativa di ingegneria sociale di razza e genere».
Non ci si arresta nemmeno ai confini della libertà di pensiero e di espressione, la salvaguardia estrema della democrazia, avviando un’operazione di licenziamento di alti funzionari dell’immigrazione che la pensino diversamente da lui.
Alla politica della solidarietà, guardata con disprezzo, si contrappone la promessa di arricchire gli americani: «Invece di tassare i nostri cittadini per arricchire altri paesi, imporremo dazi e tasse ai paesi stranieri per arricchire i nostri cittadini».
Un problema per le Chiese
Con questo programma e, avendo revocato, appena salito al potere, il diritto di essere cittadino di chiunque nasca sul territorio e sospeso il programma di ammissione di nuovi rifugiati, aumentando le operazioni di deportazione, con migliaia di arresti e ordini di cattura emessi, Trump si dichiara, il più grande protettore, di tutti i tempi, del cristianesimo e della religione: «Nobody has done more for Christianity, or for evangelicals, or for religion itself, than I have».
Problema per la Chiesa non è, però, il signor Donald Trump, bensì la massa dei suoi elettori e dei suoi fan, o meglio tutta una cultura, l’esaltazione della potenza, della ricchezza e della propria superiorità fino alla giustificazione della sopraffazione, pur di rendere grande l’America, in nome di Dio: «Non dimenticheremo mai il nostro paese, la carta costituzionale e soprattutto il nostro Dio».
Nonostante la grande diversità delle situazioni rispetto alla Chiesa tedesca degli anni Trenta del secolo scorso, resta vero che anche la Chiesa americana di oggi si trova di fronte a un Commander in Chief che si pretende mandato da Dio e che propone una visione della vita intrisa di motivi pagani, non privi di venature razziste, ritagliata sul profilo opposto a quello delle beatitudini.
Difficile liberarsi dall’interrogativo se alla Chiesa non si imponga il dovere di proclamare di nuovo, con chiarezza e fermezza, la dichiarazione della fede cristiana e cioè che solo Gesù Cristo, così come è narrato nei vangeli, è l’unica Parola di Dio, cui dare ascolto, in cui confidare e cui obbedire.
La Chiesa ha il dovere di testimoniare che essa intende vivere assumendo la gerarchia dei valori e i comandamenti dell’agire enunciati da Gesù, così come sono testimoniati nei quattro vangeli. Di quel Gesù che ha destinato il suo annuncio di salvezza prima di tutto ai poveri, che nella tentazione del deserto ha rifiutato di salvare il mondo con la forza del denaro e del potere, che ha tracciato le vie della felicità dichiarando beati i miti, coloro che operano per la giustizia, i misericordiosi, gli operatori di pace, i perseguitati per la giustizia, e riservando i suoi «Guai!» ai ricchi e ai gaudenti.
Nessuno pensa che i detti di Gesù possano essere tradotti in tanti capitoli di un programma politico, ma neppure è pensabile che la Chiesa possa tacere, tanto meno che possa applaudire a una cultura, a una propaganda, a una legislazione in clamorosa contraddizione con lo stile di vita evangelico.
Una nuova “Barmen”?
L’episcopato americano, apprezzando la sua lotta contro le leggi liberali sull’aborto e la politica del gender, in buona parte ha accompagnato la politica di Trump con un atteggiamento di simpatia. Di fronte, però, agli ultimi provvedimenti nei confronti dei migranti, la Conferenza episcopale non ha potuto non prendere posizione: per bocca del suo segretario ha dichiarato: «Sono scelte profondamente preoccupanti e avranno conseguenze negative, molte delle quali danneggeranno i più vulnerabili tra noi».
Viene da domandarsi se questo basta, o se non sia necessario andare oltre al giudizio da dare a questo o a quel provvedimento dell’amministrazione Trump, per mettere a confronto tutta un’atmosfera, un insieme di sensibilità e di pensieri, un costume e la gerarchia di valori sulla cui proposta si sono chiamati gli elettori a make America great, con la visione del mondo del Vangelo e le vie tracciate da Gesù per camminare nella vita verso il Regno di Dio.
Possiamo anche attribuire alla retorica politica di un momento, come quello dell’Inauguration Day, le velleità messianiche di Trump, resta vero che il suo programma politico e la cultura di cui egli si fa portatore e dalla quale ha attinto il vastissimo consenso di cui gode, esigono si alzi la voce della Chiesa a proclamare le beatitudini, la confessione di fede nel valore della giustizia e della pace, della solidarietà umana e della fratellanza universale, nel riconoscimento della dignità di ogni persona umana, in primo luogo dei poveri e degli emarginati e nella speranza irrinunciabile di un mondo migliore.
Possiamo attenderci da Washington, come nel secolo scorso risuonò da Barmen, una nuova solenne Dichiarazione della Professione di fede cristiana?
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