I due discorsi a confronto e il problema del Trump II: l’«età dell’oro» in America è già in corso da decenni, di Federico Rampini

Due Inauguration day molto diversi. Otto anni fa la parola chiave fu «carnage», questa volta «Golden age». Fra il 45esimo presidente (Trump I) e il 47esimo (Trump II) la differenza è netta. Il primo discorso d’insediamento descriveva una «carneficina». Industrie e posti di lavoro americani decimati dalla concorrenza sleale degli altri.
Stavolta lo slogan che ha aperto e chiuso il discorso è la nuova Età dell’Oro che comincia per l’America. Altri temi restano identici dal 2017 al 2025: la lotta all’immigrazione clandestina, la ricostruzione della sovranità nazionale, America First. Però i toni positivi abbondano, a differenza di otto anni fa.
La spiegazione: il Trump II è più forte. È reduce da un successo elettorale «vero». Pur senza dilagare, e con una esile maggioranza al Congresso che potrà perdere fra 18 mesi, ha vinto sia il collegio elettorale che il voto popolare. Ha migliorato i suoi consensi non solo nelle tradizionali constituency di destra ma anche tra donne, giovani, minoranze etniche; ha registrato progressi perfino nei bastioni progressisti come California e New York.
Non ha unificato il Paese, però ha sfruttato errori ed eccessi di una sinistra che si è resa minoritaria da sola. Trump II è molto diverso da otto anni fa anche per lo schieramento dei poteri forti che ieri lo applaudivano alla cerimonia del giuramento. Si è molto parlato del rischio di una «deriva oligarchica», da quando Elon Musk è stato raggiunto dagli altri esponenti di Big Tech, quasi tutti saltati sul carro del vincitore. Nel 2017 quegli stessi capitalisti digitali erano schierati altrettanto vistosamente dalla parte opposta. Tutti, senza eccezione. Pure Musk aveva finanziato la campagna di Hillary Clinton.
La prima elezione di Trump era stata vissuta come un «cigno nero», un incidente di percorso, uno sgorbio della storia. Nel suo primo mandato quadriennale, lui era stato circondato dal disprezzo dei grandi capitalisti: per i veri big lui era un nanerottolo, un piccolo affarista di dubbia reputazione, bancarottiere seriale. Musk lo aveva definito inadeguato a fare il chief executive della Nazione. L’umore otto anni dopo è irriconoscibile, quell’outsider disprezzato dai «veri» capitalisti nel 2017 oggi è circondato dalla loro rispettosa approvazione. Questo allineamento risponde a una logica di potere, certo. Ma è anche la consacrazione spettacolare di una crisi di rigetto. 
Chi controlla colossi come Amazon, Facebook, Google è un animale di mercato, ha antenne sensibili per captare gli umori dei consumatori. Da qualche tempo in America era in corso una rivolta della maggioranza silenziosa contro gli eccessi fanatici e intolleranti della woke culture: che invece nel 2017 era ancora nella fase ascendente della sua parabola egemonica. L’abbraccio dei grandi capitalisti ha un doppio senso. Da un lato l’establishment che aveva abbracciato e finanziato tutte le cause progressiste prende atto che la sinistra si è alienata fasce moderate di opinione pubblica, e che oggi il pendolo oscilla nel senso di una correzione di rotta.
Le «frontiere aperte a tutti e aboliamo la polizia di frontiera» di Alexandria Ocasio-Cortez ha perso consensi pure a New York e Chicago i cui bilanci sono stremati dall’accoglienza agli stranieri; l’educazione sessuale che alle elementari impone ai bambini la libertà di cambiare genere senza neppure informare i genitori ha creato allarme; l’ambientalismo apocalittico ha alienato la classe operaia. Per queste ragioni il Trump II ha potuto annunciare una «rivoluzione basata sul buon senso comune». Gli stessi capitalisti di Big Tech salgono sul carro del vincitore anche per influenzarne la direzione di guida.
A loro Trump ha promesso che insieme al pugno duro sull’immigrazione clandestina userà raziocinio e pragmatismo nell’erogare i famosi visti H1B, quelli che garantiscono alla Silicon Valley ingegneri informatici in arrivo da Cina, India, Germania, Italia. Un problema per il Trump II è questo: l’Età dell’Oro in America è già in corso da decenni. Se si guarda alla crescita del Pil e all’occupazione nessun’altra nazione sta così bene. Di recente sono diminuite perfino le diseguaglianze. Il disagio sociale è legato in parte all’ordine pubblico — su cui il governo federale di Washington ha un impatto limitato — e all’inflazione. Quest’ultima lui non la abbatterà d’incanto aumentando l’offerta di energia a buon mercato, perché sotto Biden l’America ha già fatto il record nell’estrazione di gas e petrolio, sorpassando Russia e Arabia.

corriere.it/oriente-occidente-federico-rampini/25_gennaio_21/discorsi-trump-confronto-rampini-c5bc21b4-c09c-4ecb-b7d0-cf6b3c859xlk.shtml

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