Scrive Carl von Clausewitz che «la guerra è un atto di forza all’impiego della quale non esistono limiti: i belligeranti si impongono legge mutualmente; ne risulta un’azione reciproca che logicamente deve condurre all’estremo». Il generale prussiano scopre la formula dell’apocalisse nella «tendenza all’estremo» della violenza bellica che la politica è incapace di contenere. Intuisce la spaventosa irrazionalità delle guerre, scontri parossistici reciprocamente incrementali che segnano il corso della storia. Colto d’improvviso dalla morte, non completa il suo trattato Sulla guerra, pubblicato postumo dal 1832 al 1837. Di recente, Lucio Caracciolo ne ha riportato alla luce il pensiero per descrivere i conflitti attuali, senza scopo né termine.
Rileggiamo la formula «i belligeranti si impongono legge mutualmente». Già nell’antichità e in maniera incrementale, con un acme alla metà del Novecento, gli Stati si sono imposti legge reciprocamente in altro senso. Non per rilanciare all’infinito la violenza ma per regolare e per contenere il ricorso alla guerra e le modalità e mezzi con cui possono condursi le ostilità.
Nel 1859 Jean Henri Dunant, banchiere ginevrino, si trova nei pressi di Solferino dove si sono scontrate le truppe austriaco-venete e franco-sarde, con ventitremila vittime. Scosso dalle sofferenze dei feriti lasciati a perire sul campo di battaglia si dedica a cercare «spazi di civiltà nei contesti disumanizzanti della guerra», parole del presidente Mattarella. Scrive Un ricordo di Solferino e avvia il progetto del Comitato internazionale della Croce Rossa che nasce cinque anni più tardi con la Convenzione di Ginevra sul miglioramento delle condizioni dei feriti in battaglia. Sarà l’osservazione della mostruosità dei conflitti mondiali a spronare la formazione del diritto internazionale dei conflitti armati o diritto «umanitario».
«Anche nella guerra c’è una moralità da custodire». Così papa Francesco ha spiegato il senso del diritto umanitario. Il “diritto dell’Aia” regola la condotta delle ostilità e proibisce mezzi e metodi di combattimento particolarmente atroci, come gas velenosi e armi batteriologiche, tossiche e chimiche e l’impiego dei bambini-soldato. Il “diritto di Ginevra” garantisce protezione umanitaria ai civili non combattenti e ai beni non militari. Ruota intorno a quattro principi. Umanità: non si infliggano sofferenze superflue. Distinzione: non si usi violenza contro persone e beni protetti. Proporzionalità: non si attacchi sapendo che si causeranno danni incidentali, cioè morti innocenti e distruzioni ingiustificate, smodati rispetto alle esigenze militari. Precauzione: si adotti qualsiasi accorgimento per risparmiare gli incolpevoli.
Si sollevano due obiezioni. Il diritto internazionale non è rispettato. Dunque non esiste, è un teatro di cartapesta. È vero che gli Stati tendono a servirsi della legge internazionale à la carte. Non di rado il diritto soccombe alla brutale iniquità del potere, si dimostra impotente davanti all’arroganza della forza arbitraria. Ma il diritto e le corti internazionali sono imprescindibili, come il codice penale e i tribunali in Italia davanti alla constatazione che nonostante tutto si continua a uccidere e a rubare. Le norme internazionali hanno reso la guerra meno disumana. Hanno permesso condanne morali, politiche, giudiziali per le atrocità in Jugoslavia, Ruanda, Darfur, Mali, Uganda, Repubblica centrafricana, Myanmar. Fanno sentire la propria voce nei conflitti attuali. Il diritto internazionale è insufficiente ma necessario perché la forza brutale non sia legittimata e giustificata come unico strumento per comporre le controversie.
L’altro rilievo: «Truman e Churchill erano criminali di guerra?». Era un altro tempo, regole e corti non esistevano. Ma non si può dubitare che mancassero di logica militare i bombardamenti delle città tedesche che sterminarono seicentomila civili innocenti. «Coloro che hanno scatenato questi orrori sull’umanità, sentiranno sulle proprie case e le proprie persone i colpi dirompenti di un giusto castigo», disse Churchill. Negli Stati Uniti i giapponesi erano considerati una «razza inferiore e incivile» e rinchiusi in campi di concentramento.
Il capo di Stato maggiore dell’aviazione Curtis LeMay, responsabile dei bombardamenti indiscriminati dei civili giapponesi, entusiasta sostenitore degli ordigni nucleari, riconobbe: «Se avessimo perso il conflitto, saremmo stati tutti processati come criminali di guerra». Gli ha dato ragione anche il segretario alla Difesa, Robert McNamara: «Lui, e direi io, ci comportavamo da criminali di guerra». Alla fine della guerra, due milioni di bambine e donne tedesche, da otto a ottant’anni, furono violentate. Ne morirono duecentomila per violenze, ferite, malattie, suicidio. La logica degli Alleati era la vendetta. I popoli dovevano pagare per i crimini dei propri governanti.
Oggi sono cinquantasei i conflitti armati in corso. Centinaia di migliaia le vite spezzate. Milioni di sfollati, di bambini dall’infanzia negata. L’odio fermenta e alimenta il ciclo della violenza e della vendetta. Si combatte anche un’altra guerra non meno pericolosa. Contro il diritto, i diritti fondamentali, i tribunali internazionali, le Nazioni Unite. Ai giudici internazionali sono somministrati insulti, mandati di cattura, sanzioni finanziarie e minacce di morte. Ci si scandalizza per le loro decisioni, ma non per le atrocità che accertano. Gli stolti guardano il dito e ignorano la luna. Il desiderio di fare tabula rasa della civiltà del diritto accomuna in un’irrazionalità furiosa democrazie e dittature, Occidente e anti-Occidente. I conflitti armati sono processi politici, rammentano Marcello Flores e Giovanni Gozzini in “Perché la guerra”.
La politica deve comporre le controversie senza spargimento di sangue e, quando le guerre scoppiano limitarne la disumanità, evitare che si trascinino senza scopo, fermare il male incrementale, costruire vie di pace. Se la politica smette di essere misura e limite della guerra, questa resta solo violenza selvaggia, fine a sé stessa, inconclusiva, folle. La forza economica e militare e, nel migliore dei casi, la politica governano il mondo, non la legge. Non ci sfugge. Ma diritto e politica stanno e cadono insieme. La sconfitta del diritto decreta la morte della politica. Ammassare violenza riporta alla clava come strumento di regolazione degli interessi confliggenti. Comporta l’estinzione della civiltà umana. L’apocalisse. Se è quello che si vuole, la via imboccata è quella giusta.
*Giudice della Corte penale internazionale
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