La mia Pasqua a Gaza, di Natale Albino

A distanza di qualche mese ripubblichiamo la testimonianza di don Natale Albino nella comunità parrocchiale della Sacra Famiglia di Gaza, apparsa su l’Osservatore Romano, per ricordare i volti e i nomi di tante persone, fra cui fratelli e sorelle cristiani, ancora presenti nella Striscia di Gaza e messi alle strette dal conflitto. 

Esattamente un anno fa decisi di vivere la Settimana Santa 2023 a Gaza, con la piccola comunità cattolica della Parrocchia Sacra Famiglia, composta allora da appena 136 persone. Pure in quei giorni c’erano razzi da parte di Hamas contro Israele e missili da Israele contro Hamas, anche se nulla di comparabile alla guerra seguita al 7 ottobre scorso. Da parte mia, volevo condividere con loro quei momenti di festa e di paura, facendo sentire la vicinanza del Papa, della Santa Sede e della Chiesa intera.

Con il consenso di S.E.R. Mons. Yllana, Nunzio e Delegato Apostolico, attraverso a piedi l’area militare che separa Israele dalla Striscia. A Gaza vive una piccola comunità cristiana (136 cattolici e circa 900 greco-ortodossi), che vive in mezzo a 2.300.000 musulmani, in grado di gestire tre scuole, una Casa Famiglia per circa 50 bambini diversamente abili, un Centro Culturale, un Centro Caritas e tante iniziative sociali a favore dei più poveri. In compagnia di P. Carlos, sacerdote del Verbo Incarnato, siamo accolti nella Striscia da Jeries: «Bentornato a Gaza, Abuna!». È uno di quei giovani che passa le giornate in Parrocchia, sempre all’opera. In Chiesa fervono i preparativi della Settimana Santa, coordinati da tre suore del Verbo Incarnato: Sr Maria del Pilar, Sr Maria del Perpetuo Soccorro, Sr Maria dell’Alma di Cristo. È incredibile come 136 persone possano organizzare un Triduo Pasquale così bello. Ognuno fa qualcosa ed è un caos che ti cattura: le signore preparano i canti; gli uomini addobbano l’altare della reposizione, i ragazzi fanno le prove della liturgia. È la mia comunità. Mi sento il numero 137.

Mercoledì Santo pomeriggio. Mi metto in fondo alla Chiesa con il breviario, mentre un gruppo di persone fa l’ora di adorazione eucaristica. Hani, un ragazzetto di 11 anni, m’intravede dall’altare. Con la testa ciondolante dalla timidezza e dalla gioia di rivedermi dopo mesi, viene a sedersi accanto e mi da un lunghissimo abbraccio, senza dire nulla. Preghiamo insieme i vespri in inglese e poi ci uniamo al rosario in arabo. Tra un’Ave Maria e l’altra, un ritornello nella mente: «Signore, proteggi Hani». A sera, i volti di tutti si fanno seri: «Stanotte bombarderanno». Con il pulmino di Jeries, accompagniamo i ragazzi dell’oratorio a casa, per essere più sicuri. Nelle strade deserte aleggia una calma inquietante. «Ci vediamo domani!», ci saluta Hani, con il suo sorriso impacciato, prima di perdersi da solo nei vicoli bui. L’angoscia mi gela lo stomaco: «Signore, proteggi Hani. Prendi me, ma proteggi Hani». Di notte, il boato delle bombe squarcia come una lama la notte. Alcuni missili cadono anche a un chilometro e mezzo di distanza. Tengo socchiusi i vetri delle finestre, altrimenti esploderebbero per l’onda d’urto. Al mattino seguente, i nostri cristiani sono già tutti all’opera: «Si, si, ho dormito bene», ci diciamo l’un l’altro, ma è una bugia per esorcizzare la paura. La verità è che, quando si avvicina il rombo di un aereo, il corpo inizia a tremare senza controllo e i papà si affannano a tappare le orecchie dei propri bambini, illudendosi di poterli proteggere con le carezze.

Giovedì Santo pomeriggio. La banda degli scout accompagna gioiosamente la processione d’ingresso. Arrivati sulla soglia, dieci di loro corrono trafelati in sacrestia, dismettono la divisa scout e indossano la talare rossa del ministrante. Il Capo Cerimoniere è George, che è pure il Direttore della Caritas ed è papà di tre bambine: «L’amore per la liturgia è una cosa sola con l’amore per gli ultimi. Siamo poche famiglie cattoliche, ma abbiamo deciso di restare. Se ce ne andassimo, non ci sarebbe più un tabernacolo a Gaza». P. Gabriel Romanelli, il Parroco, s’inchina a lavare i piedi di dodici anziani. Nonostante il tumore di qualche anno fa, aveva deciso di affrontare la chemioterapia a Gaza, in mezzo alla sua gente. Ora è guarito dal cancro, ma non è guarito dalla viscerale passione per il suo popolo. Tutti parlano con fierezza di lui e di P. Yousef, il Vice-Parroco.

Si avvicina Suhail, 17 anni: «Padre Natale, voglio entrare in seminario. L’ho appena detto a mamma». Gli occhi vivaci gli brillano di gioia. E brillano anche i miei, di commozione. Durante l’adorazione eucaristica della sera, Suhail è seduto tra la mamma e il papà. La mamma Randa lo abbraccia e lo accarezza per tutto il tempo. Sa che nel futuro vedrà pochissimo Suhail e chissà la vita cosa gli riserverà. A ottobre 2023, quando una bomba sventrerà la casa su cui avevano investito tutti i propri risparmi e gli porterà via tutto, scriverò a Suhail: «Mi dispiace per la tua casa. Immagino il tuo dolore». Dopo neanche 30 secondi, mi risponderà: «Abuna, grazie per il tuo messaggio. Le case di quaggiù passano. La Chiesa è la mia vera casa».

Venerdì Santo. Dopo un’altra notte di bombardamenti, prepariamo la grande croce fiorita e il giaciglio per la statua di Cristo Morto. Tra una risata e l’altra, le ragazze mi raccontano di quanto sia complicato per tutti i cristiani uscire dalla Striscia. Alcuni non sanno nemmeno com’è fatto il mondo oltre il muro di Gaza. Per strada le nostre giovani sono le uniche a non indossare il velo e anche trovare marito è un’impresa, sia perché gli altri giovani cristiani sono pochi, sia perché non intendono sposare un musulmano, dal momento che gli imporrebbe di convertirsi all’islam. Al pomeriggio celebriamo solennemente la Liturgia dell’Adorazione della Croce. In lontananza, ancora gli echi delle bombe. Nella Preghiera dei Fedeli, tutti acclamano in arabo: «Preghiamo per gli ebrei: il Signore Dio nostro, che li scelse primi fra tutti gli uomini ad accogliere la sua parola, li aiuti a progredire sempre nell’amore del suo nome e nella fedeltà alla sua alleanza». I nostri cristiani non odiano nessuno e incarnano quella neutralità positiva, che consente alla Chiesa di ogni latitudine di essere lievito di pace in mezzo alle nazioni. In serata, si tiene il Funerale di Gesù, cioè la solenne processione di Cristo Morto. Essendo vietato fare processioni per le strade di Gaza, il corteo si snoda all’interno del compound parrocchiale, accompagnata dai canti e dalla banda degli scout. La statua di Cristo Morto è portata nel cimitero adiacente, dove in mezzo alle tombe è allestita una riproduzione in cartone del Santo Sepolcro, in un clima di silenziosa devozione.

Sabato mattina. Vado a salutare i bambini diversamente abili delle Suore di Madre Teresa: è sempre una festa con loro. Saluto Samar Khamal Anton, la loro cuoca. Non posso immaginare che a dicembre un cecchino l’ucciderà dentro il cortile parrocchiale, assieme alla sua mamma Nahida. Scambio due chiacchiere anche con il suo papà Abu Emad, ultraottantenne, un vero e proprio patriarca, con sei figli e una trentina di nipoti. Ne approfitto per salutare anche le Suore del Rosario, Sr. Nabila e Sr. Bertilla, che dall’altra parte della città gestiscono con competenza la Scuola più prestigiosa dell’intera Striscia. Nel pomeriggio, coloriamo le uova da regalare a tutti: Roza, Helena, Hanen, Issa, i due fratelli Anton … tutti all’opera!.

Veglia Pasquale. «Almajdu Lillah fi Al’aeali!» – Gloria a Dio nell’alto dei cieli!. L’esplosione della gioia pasquale si mescola al sollievo per la tregua tra Hamas e Israele. Il cero pasquale avanza nella penombra emozionata. In prima fila sulla destra come sempre, Ilham Farah, una donna di 85 anni, prende appunti su tutto quello che Padre Gabriel dice. A novembre sarà gambizzata da un cecchino, morirà dissanguata da sola e il suo corpo resterà insepolto per settimane per strada. Al mattino di Pasqua, gli stessi 136 cattolici si ritrovano per la S. Messa, accompagnata da canti festosi e da uno stuolo di ministranti, precisi come a San Pietro. Dopo la Messa, ci ritroviamo tutti in cortile per riscambiarci gli auguri, avidi di festa e di abbracci, dopo il terrore passato. Con i ragazzi giochiamo a calcio nel campetto e tutti sporchi di sudore corriamo al pranzo di Pasqua. Nei giorni seguenti, trovandoci nel mese del Ramadan, gli stessi ragazzi cattolici al tramonto vanno per strada a regalare cibo e acqua ai musulmani che terminano il digiuno. Gesti concreti di amore purissimo e gratuito. Sono loro i testimoni di Gesù, il Risorto, di cui sentiamo tanto bisogno.

A distanza di un anno, in questa Pasqua 2024, la piccola comunità di Gaza continua ad annunciare a tutto il mondo che, pur in mezzo all’inferno, si può essere il seme di un mondo migliore. Buona Pasqua, da Gaza.

[Segretario della Nunziatura Apostolica in Israele e della Delegazione Apostolica a Gerusalemme e in Palestina]

Su l’Osservatore Romano del 24.04.2024

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