Lo studio è inedito e il professor Stefano Lucarelli, docente di economia politica all’Università di Bergamo, lo ha presentato in anteprima al seminario di studio di Camaldoli. Mette in correlazione la spesa militare e l’Indice di sviluppo umano (Isu), lo strumento elaborato dall’Onu nel 1990 sotto la guida dell’economista indiano Amartya Sen, Premio Nobel per l’economia nel 1998, che misura molto meglio del Pil il benessere di un Paese. L’Isu è pari alla media geometrica di tre indicatori e cioè l’aspettativa di vita, l’istruzione e il reddito. Lucarelli ha studiato il rapporto tra spesa militare e spesa pubblica, consultando lo sterminato database del Sipri di Stoccolma, il più accreditato istituto al mondo di ricerca sulla pace, con l’indice del benessere di un Paese e le sorprese non sono mancate: “La correlazione è significativa e cioè chi sta meglio si arma di più e soprattutto esporta di più”. Così scompare la propensione al disarmo e anche quei Paesi, come l’Italia, che vogliono la pace la declinano in modo compatibile con il riarmo. La spesa militare cresce e la formula magica dell’investimento sulla sicurezza giustifica la percezione di un maggior benessere. Eppure le cose sono più complicate e le percezioni spesso distorcono la realtà. Spiega Lucarelli: “I numeri servono per capire la complessità del male”. Ma occorre guardare le cose da due lati. C’è chi produce ed esporta e c’è chi compra e importa. I primi di solito sono i Paesi che stanno meglio e fanno trascinare le proprie esportazioni dall’industria bellica; gli altri sono quelli che stanno peggio e destinano quote crescenti di bilancio alle armi. Ai primi posti ci sono Stati Uniti ed Eritrea. Gli Usa producono e detengono il record dell’export mondiale. La piccola Eritrea, povera e in perenne conflitto, destina 40 dollari su 100 del suo bilancio alla spesa militare. La tempesta perfetta arricchisce economie capitaliste, dittatori variamente declinati e regola le catene di valore degli investimenti. Eppure, nonostante a livello mondiale sia molto chiara la relazione negativa tra spese militari e sviluppo umano, approfondendo l’analisi la questione si complica. La ricerca indica che superata una certa soglia di benessere la relazione è positiva. E’ il caso per esempio della Russia post-sovietica. In altre invece è positiva finché non si raggiunge una certa soglia, superata la quale la relazione diventa negativa, cioè la spese militare non serve più allo sviluppo. E’ il caso degli Stati Uniti, di Israele, ma anche dell’Italia. La Cina che in termini assoluti spende cifre altissime in armamenti ha tuttavia una spesa militare decrescente in termini percentuali rispetto all’aumento dell’indice di sviluppo. In Italia accade esattamente il contrario. La spesa militare, aumentata moltissimo negli ultimi dieci anni, sta avendo effetti negativi sul benessere, il cui indice diminuisce. I dati dicono che un miliardo di euro speso in armamenti produce 3160 posti di lavoro. Lo stesso miliardo speso nella scuola, la sanità, l’ambiente ne produce oltre 35 mila. In altri Paesi il superamento di certe soglie di benessere comporta aumento di conflittualità e i governi invece di investire in una diversa distribuzione della ricchezza e in maggiore partecipazione allargando la democrazia decidono di contenere i conflitti investendo in armamenti. E’ il caso di quasi tutti i cosiddetti Stati-canaglia che spendono in armi quote sempre maggiori di bilancio. L’Iran per difendere il proprio sviluppo accumula armamenti, ma deve fare quasi tutto da solo poiché esportando poco per via della sanzioni non fa cassa. La ricerca indica che da ogni punto di vista la correlazione tra indice di sviluppo e spesa militare è significativa e ciò potrebbe costituire paradossalmente una giustificazione alla guerra stessa. Stefano Lucarelli, che da anni studia le trasformazioni di quello che chiama “il circuito militar-monetario internazionale”, è convinto che l’argomento non sia di esclusiva competenza degli specialisti: “I numeri sono importanti per misurare le economie e aumentare la consapevolezza su un cambio di tendenza nelle scelte politiche generali che spingono purtroppo sempre di più verso un precario equilibrio di guerra, anche al di là del conflitto in Ucraina”.
Alberto Bobbio, vaticanista
Pubblicato da L’Eco di Bergamo