Joker, folie à deux: tutto chiede salvezza, di Matteo Losapio

Molto si è già discusso di Joker: folie à deux, secondo capitolo della saga di Todd Philips. Si è discusso sul fatto che sia un film scadente, che non ha realizzato le aspettative richieste, che non è stato un musical ma nemmeno un film. Eppure, nel vederlo e rivederlo, ci sono elementi che di volta in volta emergono, con una costante e sconcertante novità. Iniziando dalle prime battute del film, in cui Joker si presenta come un cartone animato che gioca/litiga con la sua propria ombra, una follia a due che replica la scena culminante del primo film, Joker, in cui il protagonista spara in testa a Murray Franklin, il conduttore televisivo. Un gioco a due, una lotta fra Arthur Fleck e la sua ombra che si veste, si traveste e subito si spoglia dei panni del Joker. Una animata folie a deux, dunque, dove il principale nemico e il principale accusatore di Fleck diviene il Joker stesso. Tema del doppio che attraversa la letteratura fin dalla notte dei tempi, per giungere allo Strano caso del dottor Jekyll e Mr. Hyde, scritto da Stevenson nel 1886, anni di una nuova urbanizzazione all’interno della Londra in pieno decollo industriale. Ed è qui che si innesta un secondo folie a deux che attraversa tutto il film: Arkham e Gotham.

Come abbiamo avuto modo di scrivere già in altri interventi[1], Ark-ham è la controparte folle, criminale e disperata di Got-ham. Un luogo che rappresenta un doppio potere eterotipico, di definizione grazie alla sanità mentale della città, al perbenismo che attraversa gli spazi urbani della metropoli postmoderna e globalizzata. Ark-ham è il luogo degli scarti di una città che produce non solo rifiuti urbani ma anche rifiuti umani, elementi emersi in maniera preponderante nel primo film di Todd Philips, Joker. La nuova urbanizzazione a cui stiamo assistendo, l’incremento della popolazione urbana all’interno delle città, lo spostamento di intere popolazioni e il trend di crescita delle megalopoli, segnano una nuova scissione all’interno dell’essere umano, un nuovo dottor Jekyll e un nuovo mister Hyde, fra Arthur Fleck e Joker. La contropartita della città, la quale genera Arkham come manicomio criminale, in cui tutti i rifiuti umani vengono posti, tuttavia, non si limita a rinchiudere, picchiare e, da alcuni cenni del film, anche a violentare i pazienti detenuti, ma anche a reprimere ogni accenno di colore, ogni accenno di amore dolce amore, come rivelano gli ombrelli immaginariamente colorati nelle prime scene di Arkham. Una folie a duex, dunque, che vede coinvolte Arkham e Gotham, in cui il gesto violento viene da una parte represso e dall’altra esaltato fino alla mania.

Ancora, dunque, una folie a deux che emerge nel processo ad Arthur Fleck in cui la sua avvocata vuole ammettere l’infermità mentale avvalorando la tesi che dentro l’innocente e remissivo Arthur si nasconda una specie di demone, pronto a balzare fuori, in una scissione di personalità. Una tesi che non piace neanche a Fleck perché sembra non cogliere esattamente il suo gesto, il suo modo di essere, la sua tesi, messa continuamente in secondo piano dal Joker. Pagliaccio che non è più un segno di protesta ma che diviene icona del disordine, del fare quello che si vuole, della violenza ad ogni costo, giustificazione del furto, della violenza, dell’omicidio. Lo sguardo dell’avvocata, del pubblico ministero Harvey Dent (il quale cova anche lui una folie a deux in quanto futuro Due Facce), del giudice e della giuria stessa vertono sul singolo atto violento commesso da Fleck, che risulta ancora essere invisibile durante il processo. La trama cambia esattamente quando Fleck decide di indossare gli abiti di Joker, di ritornare a processo con il volto del Joker e di fare a meno della difesa, per essere lui stesso a parlare, per essere in qualche modo visibile agli occhi di tutti. Tanto che, come emerge già nel primo film, Joker è il personaggio visibile, mediatico, iconico, mentre Fleck è solo una formica in mezzo a tante altre formiche che costellano la città. solo Joker ha diritto di parola in quanto mediaticamente violento e capace di prendere la parola soprattutto con la forza. È questa, se vogliamo un ulteriore folie à deux che vivono le nostre città in cui il diritto di parola è ad appannaggio di chi grida, di chi mostra i muscoli, di chi ostenta la forza, di chi indice una campagna fondi per rifarsi il seno, di chi dimora tranquillamente in tutta quella televisione spazzatura che seda la coscienza e impedisce il dialogo. Mentre Fleck cerca di portare avanti la sua difesa chiedendo di parlare delle condizioni critiche in cui vivono le persone, dello smantellamento del welfare, della solitudine a cui siamo tutti condannati, ecco che la città da una parte condanna e dall’altra osanna il gesto del Joker, l’ottenere quello che si merita. Apice di questa scissione è l’incontro di Fleck con un uomo travestito da Joker, il quale lo aiuta a scappare dal tribunale, preso dalla follia mitomane.

Infine, abbiamo il vero centro della follia per due, ovvero la relazione fra Joker e Harley Quinn. Per la prima volta incontriamo una Harley Quinn lontana, come Joker, dalle narrazioni consuetudinarie del mondo di Gotham city. Non si tratta più di una psicologa che si prende cura del Joker vivendo con lui una specie di dipendenza tossica, ma una internata anche lei nel manicomio di Arkham. Una ragazza che insegue, quasi in maniera ossessiva, il mito del Joker, fino a scegliere di farsi internare vicino a lui, solo per conquistarne il cuore. Per certi versi, paradossalmente, è Fleck che vive una relazione tossica e di completa dipendenza da Quinn, costretto quasi a risvegliare e provocare costantemente la figura del Joker. Si tratta, infatti, di una donna che sa quel che vuole, che desidera costantemente la fama e la gloria di Joker, fino a vestirsi e danzare con lui, fino a costruire una montagna con lui. Tutti appassionati di Joker, della sua brama distruttiva, del suo impeto televisivo, della sua maniaca eleganza tanto da averne fatto un film che viene costantemente citato e visto da tutti e che, in pratica, si tratta del Joker di Philips. Una folie à deux dove il primo film della saga diviene il racconto mitomane di un secondo film che sembra quasi voler uscire dall’aurea incantata e fittizia del primo per centrare veramente l’obiettivo della discussione: la salvezza.

Un sottile filo religioso, a mio parere, traccia le conclusioni di questa scissione antropologica che continuamente suona in termini di frammentazione e di violenza. Una soglia religiosa che fa dei luoghi della disperazione, uno spazio per il canto, l’immaginazione, la creatività, il desiderio di ribellione come anche di libertà. Non è un musical, ma il canto è strumento di liberazione, come per gli schiavi nelle piantagioni di cotone, come per i carcerati, come per gli internati, come per tutti coloro che soffrono e sono oppressi. Il canto è quel bisogno d’amore, dolce amore, che emerge fin dalle prime battute, simbolo di una ricerca disperata di salvezza. L’immagine della montagna, infatti, evocata nel canto, da una parte riecheggia la superbia di Babele per raggiungere il cielo, mentre dall’altra rimane il luogo di incontro biblico fra l’umano e il divino. Incontro che viene ricalcato dalle ultime parole di Fleck: Quando io costruirò quella montagna, spero un giorno che il Signore mandi Gabriele, voglio un giovane e bel figlio che prenda il mio posto, lascerò un figlio nel mio paradiso terrestre. Perché tutti, in fin dei conti, chiediamo salvezza, compreso Arthur Fleck Joker.

 

[1] https://logoi.ph/edizioni/numero-ix-23-23/theoretical-issues-ricerca-numero-ix-23-23/questioni-e-pratiche-issues-and-practices/gotham-la-latente-disumanita-nelle-citta.html

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