Ho sentito spesso parlare, in questi ultimi anni, del beato Carlo Acutis. La prima cosa che mi ha colpito di lui è l’essere nato nel 1991 e, felicemente, riscoprirlo come mio coetaneo. Figlio dell’alta borghesia milanese, Carlo frequenta la comunità parrocchiale di Santa Maria Segreta con tutta la semplicità che ha caratterizzato e che caratterizza ancora i miei coetanei, una delle ultime generazioni ad appartenere al transito nel mondo digitale e non pienamente nati in esso. Quelle generazioni di transito fra il boom economico e le profonde crisi finanziarie che hanno colpito anche i nostri territori. Giovani che oggi si affacciano all’età adulta, senza le sicurezze delle generazioni precedenti, traghettate nel Duemila, ma anche guardando con meraviglia e anche disincanto la società di oggi e le nuove generazioni vissute interamente nel mondo virtuale, nella crisi ambientale, nel cambiamento climatico, nella globalizzazione e nella fluidificazione della società. Fa piacere, dunque, ritrovare un proprio coetaneo in un percorso di fede attento e discreto, inserito nei segni dei tempi che abbiamo vissuto e che, purtroppo, è stato colpito improvvisamente da leucemia, salendo al Cielo nel 2006.
Ma, nonostante il grande piacere nell’ascoltare la testimonianza di fede di un mio coetaneo, sono rimasto colpito e interdetto quando ne ho visto la statua in una parrocchia. In maglietta rossa, con lo stesso zaino che avevo io da ragazzo, con i jeans e le scarpe bianche della Nike. Sono rimasto interdetto non per l’abbigliamento o per l’improponibile personal computer utilizzato come suo apparato iconografico quanto per il marchio Nike sulle scarpe. Essendo anche io cresciuto in una comunità parrocchiale, ricordavo che durante gli anni dell’adolescenza ci avevano fatto conoscere lo sfruttamento impietoso di alcune grandi marchi internazionali, fra cui proprio la Nike. Da una breve ricerca su internet (strumento iconografico della nostra generazione!), ho ritrovato le dichiarazioni dell’azienda Nike che affermava, nel 2005, che aveva sfruttato operai soprattutto in Cambogia e in altri Paesi del Terzo mondo. In un articolo su La Stampa del 14 aprile 2005, Anna Masera scrive:
«Just do it». La Nike non è stata veloce come lo slogan che la rende famosa nel mondo, ma alla fine ci è arrivata. Dopo nove anni di critiche sulle condizioni di lavoro nei suoi stabilimenti all’estero, ha rivelato ieri per la prima volta quali sono e dove sono localizzate le fabbriche – oltre 700 impianti produttivi sparsi nel mondo – da cui si rifornisce, e ha ammesso che in alcuni stabilimenti i lavoratori subiscono vessazioni come l’impossibilità di bere, di fare uso delle toilette e dell’obbligo degli straordinari. Da anni gli attivisti no-global chiedono che le multinazionali rivelino l’ubicazione degli stabilimenti di produzione per consentire la valutazione indipendente delle reali condizioni di lavoro, un’informazione spesso rifiutata per evitare – secondo la giustificazione più ricorrente – «lo spionaggio industriale» dei concorrenti.[1]
Dietro il marchio Nike, come anche Adidas secondo il rapporto, ed oggi dietro i marchi della fast fashion si nascondono ancora storie di oppressione e di sfruttamento di lavoratori, in condizioni precarie sia dal punto di vista della sicurezza sul lavoro, sia in termini di inquinamento e ambiente. Ancora più sconcerto ha destato in me, il vedere come nel luogo dove è collocato il corpo di Carlo Acutis sono visibili ai suoi piedi un paio di Nike nere, riconoscibili dall’iconico brand che sembra quasi sostituire l’apparato iconografico del pc. E mentre le Nike troneggiano in vetrina con il corpo di Carlo Acutis continuando le varie campagne contro la discriminazione e lo sfruttamento dei lavoratori dell’industria tessile e della fast fashion, fra cui Abiti Puliti (https://www.abitipuliti.org).
Penso che proprio qui, in questa frattura fra la montante devozione a Carlo Acutis e le condizioni lavorative poco dignitose che ha rappresentato la Nike negli stessi anni in cui viveva il giovane beato, emerga tutta una serie di problemi ingenui, inconsapevoli oppure falsamente ignorati fra la fede, la devozione, i giovani, la società. Mentre si moltiplicano statue, novene, miracoli o presunti tali, intitolazioni di oratori ad un ragazzo disarmante per la sua semplicità e fede, ecco che emerge in maniera palese il perché molti dei nostri ragazzi e ragazze adolescenti non vogliono entrare in parrocchia o, subito dopo il sacramento della Confermazione, lasciano gli ambienti parrocchiali o parrocchiosi, che dir si voglia. Perché una devozione che utilizza strumenti vecchi o destinati ad un popolo adulto, quasi avvallando in maniera spudoratamente ingenua ma non per questo colpevole, anche un brand che rischia di diventare il vero apparato iconografico del santo. Un Santo Nike che pensiamo possa parlare ai giovani per il solo fatto di avere la loro stessa età, inzuppandolo in un devozionismo vecchio, polveroso, ripetitivo che non tiene conto della realtà. A mio parere, penso che per dialogare con gli adolescenti o i giovani miei coetanei o più piccoli, bisogna ritornare a parlare di giustizia sociale, di cambiamenti climatici, di gioco d’azzardo, di difficoltà a trovare un lavoro, di sessualità e affettività, di questioni di genere, di guerra e di pace, di bullismo, di immigrazione, di rabbia e di morte, di diritto alla vita e di difficoltà nel vivere. Tutti elementi e questioni calde che rimettono in discussione anche la fede, che spingono al dubbio, alla ricerca di Dio alla luce delle condizioni sociali, culturali e politiche che viviamo oggi. Tutte questioni che abbiamo bisogno di leggere attraverso la Parola, la Tradizione e il Magistero della Chiesa. Non basta mettere un computer in braccio ad un santo per sperare che i giovani si avvicinino ai nostri ambienti, occorre ripensare se questi nostri ambienti ecclesiali abbiano ancora senso dinanzi alla storia di oggi. Fino a quando continueremo a credere o pretendere che i giovani si avvicinino alla Chiesa perché vedono il pc o le scarpe della Nike o qualche altro brand su un santo, stiamo ancora commettendo quell’errore che ci suggerisce Matteo Lancini con il suo “Sii te stesso, a modo mio”[2]. Pretendere che i giovani pensino, preghino, credano come vogliamo noi adulti, sperando che si avvicinino ai nostri ambienti che, spesso, non sembrano avere nessun contatto con la realtà è il grande pericolo che corriamo nell’agghindare le chiese di statue di santi giovani che hanno già l’odore del vecchio, del polveroso e dello stantio. Occorre tornare a dare senso alla santità, a darle quello spessore umano e sociale come la riflessione sul vicino di sepolcro di Acutis, San Francesco d’Assisi, continua a fare ponendo domande alla società di oggi, dalla questione ambientale alla fraternità universale. Tornare a riconoscere come, nella Chiesa, l’Eucarestia sia davvero, come ricorda Acutis, l’autostrada per il Cielo, da percorrere scalzi, al passo, dei e delle giovani, degli scartati, degli studenti, degli operai, degli ultimi della Terra.
[1] A. Masera, La Nike confessa: «Sì, sfruttiamo i lavoratori», La Stampa 14 aprile 2005.
(https://www.filcams.cgil.it/article/rassegna_stampa/_mondo_la_nike_confessa_si_sfruttiamo_i_lavoratori).
[2] Cfr. M. Lancini, Sii te stesso, a modo mio. Essere adolescenti nell’epoca della fragilità adulta, Raffaello Cortina editore, Milano 2023.