Aver cura e portare al Signore, di Rocco D’Ambrosio

Il Vangelo odierno: In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!»
(Mc 7, 31-37 – XXIII TO/B).

Anche se non volessimo, basterebbe il dramma dei migranti (per fame, violenze, restrizioni di libertà, morte in mare, diritti non riconosciuti nei Paesi di approdo) o delle uccisioni di donne, bimbi e famiglie, per poter aprire gli occhi su quanta sofferenza, e di quanti tipi, alberga nel mondo; senza dimenticare i malati e le vittime delle malattie gravi che colpiscono amici e parenti. Nel Vangelo esiste una specie di movimento continuo, sia personale che di gruppo: portare al Signore Gesù chi soffre. Di questi movimenti comprendiamo tante cose: la ricerca classica di chi sta male e anela a star meglio, la fama di guaritore di cui godeva Gesù, la fede, insieme a tanti aspetti umani e semplici, di chi è nel bisogno o di chi lo accompagna. Il tutto è sintetizzato in quella espressione frequente: “gli portarono … e lo pregarono di…”.

Questo movimento, questo “portare” sé o gli altri al Signore, lungo la storia, non si è mai interrotto. È così nelle chiese sconosciute o nei santuari noti, negli angoli più nascosti del villaggio globale, dove c’è dolore o disagio, solitudine o persecuzione. Portare al Signore, non allontanare persone e problemi. Non vorrei ricadere in una sterile critica dei nostri tempi o della cultura oggi dominante, ma forse i verbi che oggi ci connotano non sono aver cura e portare, ma spesso allontanare, far finta di non aver visto e trovare mille scuse per menti ottuse e cuori induriti, che ignorano o dimenticano o mentono o attaccano chi ha bisogno. Del resto come può comprendere la tenerezza e la sollecitudine verso gli altri chi riempie testa e cuore (e web) di frasi razziste e cattive, chi non ha nessuna cura degli altri e vive nell’individualismo più bieco e sciocco? 

Per portare qualcuno al Signore bisogna farsene carico, prendersene cura – I care, diceva Lorenzo Milani. Conosco diverse persone, non credenti e credenti, anche laici impegnati e pastori, che non  manifestano nessun interesse, finanche a rifiutarsi di fare delle semplici visite a malati e sofferenti, disagiati e poveri. Sono perfetti esempi di quello snobismo classista e/o cattolicesimo borghese che non si sporca le mani, ma preferisce solo pontificare sul mondo che non va, su chi soffre, sulla politica, sui migranti bla bla… Quante chiacchiere! Le domande invece sono: quante ore di volontariato a settimana o mese facciamo? Quanti malati o anziani (parenti o amici) abbiamo visitato nell’ultimo mese? Se la somma fosse zero sarebbe il caso di… darci da fare prima che la mente e il cuore si ammalino.

Si serve chi ha bisogno e la/o si porta al Signore perché si crede che senza di Lui non ci può essere bene o salvezza, guarigione o serenità. Si porta al Signore perché solo Lui “fa bene ogni cosa”. Per chiedere e ottenere miracoli ci vuole fede, tanta fede. Ma ci vuole anche tanta umiltà. La persona propone e Dio dispone, si dice.

Certo – insisto – il portare al Signore non ci esclude dal rimboccarci le maniche per fare qualcosa per chi sta male. Aiutati che Dio ti aiuta, si suol dire. Quindi dobbiamo portare  al Signore e, al tempo stesso, aver cura di chi portiamo e ricordiamo presso il buon Dio. Nella stessa misura: cura attiva e preghiera costante. 

Riferendosi alla sua figlia ammalata Francoise Emanuel Mounier ha scritto alla moglie: “Dal mattino alla sera, non pensiamo a questa sofferenza come a qualcosa che ci viene tolto, ma come a qualcosa che doniamo, per non essere da meno di questo piccolo lustro che è fra noi; per non lasciarla sola, lei che deve attrarci, per non lasciarla sola a soffrire con Cristo”. 

Rocco D’Ambrosio

[presbitero, docente di filosofia politica, Pontificia Università Gregoriana, Roma; presidente di Cercasi un fine APS]

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