Contro ogni ipocrisia, di Rocco D’Ambrosio

Il Vangelo odierno: In quel tempo, si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti –, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?».
Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto:
“Questo popolo mi onora con le labbra,
ma il suo cuore è lontano da me.
Invano mi rendono culto,
insegnando dottrine che sono precetti di uomini”.
Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini».
Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». E diceva [ai suoi discepoli]: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo»
(Mc 7 – XXII TO/B).

Leggendo questo brano mi torna spesso in mente la canzone di Fabrizio De Andrè, “Il Testamento di Tito”: un acuto esempio di descrizione di quella ipocrisia che emerge da quelle persone che si sentono così tanto religiose… da tradire la religione stessa! Delle persone che chiederebbero, ancora oggi, a Gesù: “Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?”. Gesù risponde e precisa che, a lungo andare, il loro modo di rapportarsi a obblighi e riti era diventato un mix di ipocrisia, di precetti umani presentati come volere divino e così via. Canta De Andrè: “Lo sanno a memoria il diritto divino, e scordano sempre il perdono…”.

Gesù propone un radicale cambio di ottica. Del resto non poteva essere diversamente: una parte della comunità ebraica aveva perso la genuinità della fede e già i profeti avevano insistito sul ritorno all’autenticità e coerenza, come lo stesso Isaia citato da Gesù. Il cambio di ottica consiste nel passare dall’attenzione per l’esterno a quella per l’interno. E’ una di quelle cose facile a dirsi, ma molto difficile a mettersi in pratica. Tutto ciò che è esterno ci attira immediatamente e spesso fortemente: il vivere in una società dell’immagine non ci aiuta. 

“Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male”, dice Gesù. Con buona pace di tutti coloro che pensano che il male ha solo origini e motivazioni sociali e politiche, culturali e storiche. Il male nasce dentro e non fuori di noi: famiglia o gruppi, istituzioni o villaggio globale.  Del resto i gruppi sono fatte di persone e sono le persone e renderle buone o cattive, belle o brutte, giuste o ingiuste, uniti o divise. Tante volte dire che è “colpa dell’ambiente o della situazione storica” o di altro esterno a noi è solo una scusa per non riconoscere che siamo tutti, chi più, chi meno, autori di un male che nasce dentro di noi. Certo l’ambiente ha un’influenza, più o meno grande, ma non potrà mai essere il responsabile di tutto il male.

Gesù è anche molto chiaro anche su cosa possa essere definito male. Male sono “impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza”. La lista serve a non farci dire sciocchezze, a evitare estremisti, come il considerare tutto male o, al contrario, niente male. Il male sono questi dodici peccati o, negatività, se vogliamo dirlo in termini laici.

Questi peccati hanno sempre un responsabile, un autore, con un nome e un cognome. Non è colpa né di Dio, né della società, né del periodo storico o la cultura. E’ colpa solo nostra o, meglio, di chi ha in se e produce negatività e si industria a seminarle.

Ma forse è il caso di rileggere e riascoltare De Andrè: 

Il testamento di Tito

di Fabrizio De André

 

Non avrai altro Dio all’infuori di me

Spesso mi ha fatto pensare

Genti diverse venute dall’est 

Dicevan che in fondo era uguale

Credevano a un altro diverso da te 

E non mi hanno fatto del male

Credevano a un altro diverso da te 

E non mi hanno fatto del male

Non nominare il nome di Dio

Non nominarlo invano

Con un coltello piantato nel fianco 

Gridai la mia pena e il suo nome

Ma forse era stanco, forse troppo occupato

E non ascoltò il mio dolore

Ma forse era stanco, forse troppo lontano

Davvero lo nominai invano

Onora il padre, onora la madre 

E onora anche il loro bastone

Bacia la mano che ruppe il tuo naso 

Perché le chiedevi un boccone

Quando a mio padre si fermò il cuore 

Non ho provato dolore

Quanto a mio padre si fermò il cuore 

Non ho provato dolore

Ricorda di santificare le feste

Facile per noi ladroni 

Entrare nei templi che rigurgitan salmi 

Di schiavi e dei loro padroni

Senza finire legati agli altari 

Sgozzati come animali

Senza finire legati agli altari 

Sgozzati come animali

Il quinto dice non devi rubare 

E forse io l’ho rispettato 

Vuotando, in silenzio, le tasche già gonfie 

Di quelli che avevan rubato

Ma io, senza legge, rubai in nome mio

Quegli altri nel nome di Dio

Ma io, senza legge, rubai in nome mio

Quegli altri nel nome di Dio

Non commettere atti che non siano puri 

Cioè non disperdere il seme

Feconda una donna ogni volta che l’ami 

Così sarai uomo di fede

Poi la voglia svanisce e il figlio rimane 

E tanti ne uccide la fame

Io, forse, ho confuso il piacere e l’amore

Ma non ho creato dolore

Il settimo dice non ammazzare 

Se del cielo vuoi essere degno

Guardatela oggi, questa legge di Dio

Tre volte inchiodata nel legno

Guardate la fine di quel nazzareno 

E un ladro non muore di meno

Guardate la fine di quel nazzareno 

E un ladro non muore di meno

Non dire falsa testimonianza 

E aiutali a uccidere un uomo

Lo sanno a memoria il diritto divino

E scordano sempre il perdono

Ho spergiurato su Dio e sul mio onore 

E no, non ne provo dolore

Ho spergiurato su Dio e sul mio onore 

E no, non ne provo dolore

Non desiderare la roba degli altri 

Non desiderarne la sposa

Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi 

Che hanno una donna e qualcosa

Nei letti degli altri già caldi d’amore 

Non ho provato dolore

L’invidia di ieri non è già finita

Stasera vi invidio la vita

Ma adesso che viene la sera ed il buio 

Mi toglie il dolore dagli occhi 

E scivola il sole al di là delle dune 

A violentare altre notti

Io nel vedere quest’uomo che muore

Madre, io provo dolore

Nella pietà che non cede al rancore 

Madre, ho imparato l’amore

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