La minoranza silenziosa dei ragazzi stranieri nati in Italia sta assistendo probabilmente con un sano distacco al dibattito ferragostano sullo “Ius scholae”. La riforma della cittadinanza per i figli dei migranti che abbiano concluso un percorso scolastico di cinque anni nel nostro Paese è infatti vecchia quasi di un decennio e va ad aggiungersi ad altri progetti come lo “Ius soli” e lo “Ius culturae”, ampiamente presi in esame da diverse legislature a questa parte e puntualmente finiti imprigionati nelle sabbie mobili del nostro Parlamento. Eppure il tema è di fondamentale importanza, visto che stiamo parlando di un milione di persone tra giovanissimi, adolescenti e bambini che vivono nel limbo giuridico creato da una legge, quella del 1992, pensata per un altro mondo. Un mondo che non c’è più, naturalmente. Perché allora questa distanza da parte delle seconde e ormai terze generazioni di immigrati presenti nel nostro Paese? E come riavviare il filo del discorso, rilanciato ampiamente nei mesi scorsi sulle colonne di Avvenire, tentando di ricucire una tela più volte strappata?
Il primo passo da compiere è riconoscere, appunto, che questo “spread” tra mondo reale e politica esiste davvero e si è purtroppo allargato: correva l’anno 2011, quando per i 150 anni dell’Unità d’Italia, si lanciarono le prime campagne di sensibilizzazione sul tema, con centinaia di migliaia di firme raccolte a favore dei “nuovi italiani”. L’associazionismo anche allora intercettava un vento favorevole proveniente soprattutto dal mondo dello sport. Così è anche oggi: dagli Europei di calcio del 2012 con Mario Balotelli alle Olimpiadi di Parigi 2024 con Paola Egonu ed Ekaterina Andropova, simboli dell’Italvolley vincente e multietnica, gli umori dell’opinione pubblica vengono spesso condizionati da vittorie e sconfitte degli atleti. Cosa ci siamo persi, nel frattempo? Tante occasioni per stare al passo con i cambiamenti in atto nel nostro Paese. Mentre crescevano le aspettative dei giovani stranieri, paradossalmente, aumentava un sentimento di discriminazione, quando non di razzismo, assecondato dalla politica. Con la differenza che oggi la paura di accogliere migranti e inserirli poi in un Paese che si senta finalmente adulto, non ha più senso. Vale la pena di ricordare a leader di partito bravi nel compulsare l’andamento dei sondaggi e del proprio personale gradimento, che secondo l’ultimo rapporto del Censis la percentuale di italiani favorevoli al riconoscimento della cittadinanza ai figli dei migranti è stabilmente sopra il 70%. Non solo: nelle nostre scuole, ormai, uno studente su dieci ha origine straniera e, in quel 10%, due su tre sono nati in Italia.
Ecco la necessità di fare un secondo passaggio, anche per evitare di svegliarsi ogni quattro anni, quasi si fosse Alice nel paese delle meraviglie: i dati bisogna saperli leggere. Affermare, come fanno esponenti di governo della Lega, che non c’è bisogno di cambiare nulla perché l’Italia è già il Paese che ha concesso il maggior numero di cittadinanze a stranieri in Europa significa piegare i fatti secondo il proprio interesse elettorale, senza conoscerli, in modo strumentale e capzioso. Come ha spiegato questo giornale alcuni mesi fa, infatti, il nostro record 2022 sui riconoscimenti di “italianità” in particolare a persone provenienti da Albania, Marocco e Romania altro non è che il traguardo finale raggiunto, con iter legali lunghi addirittura 15-16 anni, da chi ha provato per primo tra la metà degli anni Novanta e il primo decennio del Duemila, a venire nel nostro Paese. È paradossalmente la conferma che la legge 91 è datata e non funziona. Ci vuole troppo tempo, infatti, per vedersi riconosciuto un diritto e la nostra burocrazia, anziché agevolare, complica e ingigantisce i problemi. Un boomerang, insomma, per chi si ostina a difendere leggi vecchie.
Proprio questo ci conduce dritti al terzo punto, cioè a come aggiornare la normativa, tema messo sul tavolo da Forza Italia, che ha coraggiosamente aperto una breccia nell’attuale maggioranza. Sono diverse le proposte presentate in Parlamento, anche se, a meno di sorprese, difficilmente ci saranno novità rilevanti da qui alla fine della legislatura. Non pare essere il momento di una riforma di sistema. Più interessante sarà vedere, invece, come si potranno recepire dal basso le richieste di ascolto delle nuove generazioni di stranieri: in questo senso, il coinvolgimento dei Comuni attraverso gli uffici anagrafe nei percorsi di verifica dei requisiti di cittadinanza potrebbe essere il segnale di una piccola svolta. Uno Stato amico e non più straniero per il milione di giovani nel limbo che sognano di diventare italiani, potrebbe essere infatti l’esito migliore (per il momento) del dibattito di queste ore.
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