La notizia della morte di Paolo Ricca (1936-2024) ci ha colto di sorpresa.
Grazie alla Chiesa Valdese di Corato (Ba) e alla associazione culturale “Extra Nos” di cui assieme al prof. Mario Miegge fu tra i primi sostenitori, apprezzandone anche il nome (Extra Nos: la salvezza è fuori di noi, perciò nessuno si salva da solo!), Paolo Ricca, negli ultimi 15 anni, è stata una persona amata e accolta sempre con entusiasmo nella nostra città, amore che lui stesso ha più volte dichiarato come reciproco. Non più di due settimane fa, in ospedale, a Roma, mi disse di salutare tutti gli amici di Corato. Mi disse anche con commozione di avere molto gradito la telefonata dell’amico Corrado De Benedittis, sindaco di Corato.
Ricordiamo, tra le altre, le sue conferenze su Lutero e Martin Luther King moderate dall’indimenticabile Felice Tarantini e Pasquale Menduni; il suo intervento, assieme al caro don Agostino Superbo, sul Concilio Vaticano II, di cui seguì i lavori come giovane giornalista evangelico; le sue lezioni al Liceo “Oriani” e al “Federico II” sulle “Dieci parole di Dio” (I dieci comandamenti di cui fu consulente teologico di Roberto Benigni) e sull’importanza del dialogo ecumenico; i suoi due dialoghi in Teatro con Gianni Vattimo sulla violenza e sulla libertà e, così, via via fino all’ultimo, il 22 marzo di quest’anno, insieme a Gabriella Caramore, con cui ha collaborato per anni al programma di Rai Radio Tre “Uomini e Profeti”.
Ora, Paolo Ricca ci ha lasciato. C’è non solo un ricordo, ma anche una eredità di cui mi chiedo se riusciremo a essere custodi e testimoni responsabili.
Qui, voglio sottolineare solo tre frammenti di questa eredità.
Il primo è la profondità e rigorosità del suo pensiero quale antidoto alla dilagante banalizzazione della predicazione evangelica, foriera di una fede tenace e resistente nella pratica quotidiana, prima ancora che nella predica domenicale. Nella banalizzazione si nasconde spesso la profanazione: non si possono dire cose ovvie su Dio, renderlo banale, perché Dio ci sorprende: è il nuovo che si annuncia!
Il secondo è, come scrive F. Giampiccoli, la “scoperta del Gesù-diacono” nelle parole di Luca 22,27: “Chi è più grande, colui che è a tavola o colui che serve? Non è forse colui che è a tavola? Ma io sono in mezzo a voi come colui che serve (come un diacono)”. La chiesa conosce Gesù come Signore, redentore, salvatore, vero Dio, vero uomo, ecc… ma non come diacono, perciò non gli riconosce questa qualifica. Eppure è la sola qualifica che Gesù si è attribuito. Cosa può significare tutto ciò? È la grande rivoluzione divina: Gesù è Signore perché è diacono, è Maestro perché è diacono, perché è “come colui che serve”! Per Gesù il modo di regnare è quello di servire, di essere servitore in quanto Signore. Non è il signore che serve, ma è Signore chi serve! Il servitore è Signore, il servitore regna. Nel servizio non c’è potere. Gesù parla del servizio, ma i discepoli discutono sul primato. Loro vogliono una comunità di signori, cioè di leader, come diremmo noi, oggi, Gesù invece vuole una comunità di servitori. “Ci sorprende -scrive P. Ricca- che la chiesa non dà a Gesù il titolo di diacono. Sembra che si vergogni di essere la comunità di un diacono. […] Ha preferito esercitare la diaconia e questo lo ha fatto anche con serietà, amore, dedizione. Ma non è stata capace di comprendere se stessa come corpo di un diacono. Ecco perché Gesù il diacono è scomparso dal suo orizzonte”.
Il terzo frammento riguarda il ruolo delle minoranze nella storia, che raramente la storiografia ufficiale riconosce e che le nuove democrazie a colpi di soglia di sbarramento e di leggi maggioritarie vuole ridurre al silenzio. Di cosa si tratta? Del grande mistero della storia. Ripercorrendo la lunga storia della minoranza valdese, e questo vale per quasi tutte le minoranze che sono riuscite a sopravvivere, dal 1170 (dalla predicazione di Valdo di Lione) al 1848 i valdesi hanno conosciuto solo la persecuzione. Dal 17 febbraio del 1848 con le “Lettere Patenti” vengono riconosciuti loro alcuni diritti (frequentare l’università, poter uscire dal ghetto e poter acquistare qualcosa). Si tratta di diritti civili e non religiosi. Con il Concordato fascista del 1929 i culti dei valdesi e dei non cattolici in generale che prima erano solo tollerati divengono culti ammessi, anche se sottoposti ad un controllo maggiore. Con la Costituzione del 1948 si crea un pasticcio: l’Italia è uno stato laico, quindi non ha più una religione di Sato, ma con il Concordato tuttavia viene creato un privilegio per la chiesa cattolica. Questo il paradosso: vale di più l’art. 7 o l’art. 8 della Costituzione? Infine, nel 1984, con le “Intese”, viene cancellata l’espressione “culti ammessi” e finalmente agli evangelici viene riconosciuta la libertà, ma è bene sottolinearlo, una libertà senza privilegi! È questa la libertà voluta dagli evangelici! Per questo Paolo Ricca afferma che l’anno della libertà religiosa in Italia è il 1984.
Che cosa ci insegna questa micro-storia? Che ci sono voluti circa 800 anni perché ai valdesi venisse riconosciuto il diritto di esistere come tali, senza discriminazioni, senza svantaggi politici ed economici. Ma, soprattutto, che la libertà costa cara. Chi non ha mai sofferto per la libertà non può capire fino in fondo cosa significhi conquistarla. Sono le piccole minoranze che col loro sangue scrivono le grandi parole della storia! Tra queste, la parola “libertà” nella nostra Costituzione. La libertà non è un dono dei potenti. Non sono i padroni che liberano gli schiavi, sono gli schiavi che liberano i padroni dalla loro tirannia. Perciò, quando parliamo di diritti umani, ricordiamoci di quelle minoranze che ne hanno pagato il prezzo e trattiamole con massimo rispetto. Questo è il mistero della storia: che i grandi valori della civiltà sono originariamente legati a quelle minoranze a cui la storia negava ogni diritto. La vittima converte il carnefice e lo obbliga a scrivere la parola “libertà” nella Costituzione. Così, la lotta per i diritti civili è diventata la lotta per i diritti religiosi, poi libertà di parola, quindi di stampa, perché la verità dei diritti è una e indivisibile. Il riconoscimento di questi diritti è la storia del Protestantesimo.
Ma la libertà più grande non è esistere come protestanti o come cattolici: è la libertà di amare. E qui Paolo Ricca ci ha insegnato che “tu sei libero quando ami. Non sei mai così libero come quando ami, liberamente chi e liberamente come”. E questo ultimo frammento apre una riflessione più che mai attuale.
La sera prima dell’intervento Paolo mi chiama, chiedendomi se l’avessi chiamato. Io non l’avevo chiamato, ma abbiamo colto l’opportunità per parlare lungamente. Le sue parole rivelavano sì la naturale incertezza per l’intervento che doveva subire, ma testimoniavano anche e soprattutto l’uomo di fede quale egli era, nel momento in cui era cosciente di trovarsi di fronte ad una prova difficilissima. Ad un certo punto, lentamente, scandendo parola dopo parola, mi dice, quasi sussurrando: “Eliseo, ti voglio confessare qual è il mio unico conforto in vita e in morte: che io, con il corpo e con l’anima, sia in vita sia in morte, non sono mio, ma appartengo al mio fedele Salvatore Gesù Cristo, il quale, con il suo prezioso sangue, ha dato piena soddisfazione per tutti i miei peccati e mi ha liberato da ogni potere”.
Queste sono le parole iniziali del Catechismo di Heidelberg, che aveva fatte sue. Questa confessione è stato il suo ultimo insegnamento che mi ha dato: che io, sia in vita sia in morte, non sono mio, ma appartengo a Cristo.
Ecco come un Cristiano va incontro al suo futuro lasciando, a noi, non la disperazione, ma la luce della speranza.
Ciao, Paolo, ti sarò grato per sempre.
[docente di filosofia, pastore evangelico, Corato, Bari]