Le democrazie in pericolo e il riequilibrio necessario, di Luigi Caranti

Le nostre democrazie stanno davvero morendo, come un po’ tutti (studiosi, politici, uomini comuni) sostengono? Se è così, perché? Il XXI secolo sarà ricordato come il tempo in cui la liberaldemocrazia, ossia quella inedita combinazione di libertà, benessere diffuso (anche se ampiamente ineguale) e pace, tramontò per far spazio a forme politiche autoritarie? A regimi che fanno gelare il sangue a chiunque abbia la minima idea di cosa si parli? Se si guarda al crescente consenso ottenuto in molti paesi europei ed extraeuropei da partiti di estrema destra e populisti (e spesso filoputiniani) si direbbe di sì.

Stessa impressione si ha guardando al crescente astensionismo e all’inversione di rotta di quella che Huntington chiamava “la terza ondata di democratizzazione”, con il ritorno, se non ad autoritarismo vecchio stile, a ‘democrature’ illiberali in molti paesi nel mondo. Fenomeno questo che non riguarda solo un mondo lontano, ma accade, è bene ricordarlo, anche da noi. Si pensi al caso Ungheria, al quasi caso Slovacchia, alla Polonia prima delle recenti elezioni. Anche la scienza politica sembra sentenziare in questo senso, e ‘Come le democrazie muoiono’ è il titolo di un fortunato libro di Levitsky e Ziblatt del 2018. Va detto che di recente alcuni studiosi hanno messo in dubbio il democratic backsliding invitando a basare il giudizio non su percezioni di esperti e politologi ma su fattori oggettivi che misurano la democraticità dei paesi.

La verità, ovviamente, è che nessuno sa come andrà a finire. Magari tra vent’anni scopriremo che la crisi era solo un momentaneo arretramento e che la democrazia ha ancora forza propulsiva e soft power. Rimarrebbe comunque da spiegare perché da qualche decennio assistiamo a questo pericoloso indietreggiare. Qui le spiegazioni sono sostanzialmente due: una monista, che riconosce un’unica causa dietro il fenomeno, un’altra pluralista, che di cause e motivi, tra loro indipendenti, ne vede molti. Per il primo modo di vedere il vero ed unico responsabile della crisi è il neoliberalismo. A partire dalle rivoluzioni liberiste di Reagan e Thatcher è pian piano passata l’idea che la diseguaglianza economica non fosse un problema. Solo la povertà al limite lo è, e questa va combattuta non tassando i superricchi, ma incentivandoli a produrre facendo loro pagare poche tasse, in modo che qualcosa ’rotoli giù’ anche a favore degli ultimi (la famosa ’trickle-down economics’).

Tale approccio avrebbe causato una sofferenza diffusa della classe media, che ha cominciato ad aver paura e a seguire chi quella paura ha cavalcato. In altre parole il neoliberalismo è l’artefice della deriva plutocratica delle nostre democrazie e quindi dell’alienazione di intere masse di cittadini dalla politica tradizionale, con i ben noti e conseguenti fenomeni di culto della personalità, sfiducia negli istituti tradizionali della vita democratica, approccio complottista ai problemi, populismo. E’ questa una spiegazione forte, che poggia su un fenomeno innegabile (l’aumento esponenziale della diseguaglianza economica anche all’interno dei nostri paesi) e che, individuando un solo colpevole, soddisfa il bisogno naturale di riportare fenomeni complessi ad un ordine gestibile e trattabile.

Molti però ritengono che il problema sia più complesso e investa una trasformazione profonda, iniziata sempre negli anni Ottanta, che riguarda il modo in cui il mercato e l’economia reale sono cambiati, inglobando aspetti delle nostre vite che prima erano loro estranei. Si pensi alla teoria ’agenziale’ del mercato di Michel Callon, ma anche al noto “capitalismo della sorveglianza” della Zuboff, dove le nuove merci sono il surplus comportamentale che ciascuno di noi produce semplicemente connettendosi alla rete.

Qui il suggerimento sembra essere che il democratic backsliding sia causato non solo da un’involuzione ideologica, ma da fattori oggettivi quali ad esempio la rivoluzione digitale, persino prima che questa fosse investita da quel poderoso fenomeno che è l’IA. Qualunque sia la giusta ricostruzione delle cause, appare piuttosto chiaro che la medicina contro il crollo di fiducia nella democrazia da parte dei popoli democratici sia, un po’ banalmente, la ritrovata capacità della prima di rispondere ai bisogni essenziali dei secondi. Solo questo sottrarrà argomenti basati sulla paura a spregiudicati imprenditori populisti di varia risma. Ci vuole semplicemente più equilibrio nella distribuzione dei benefici del vivere comune in un contesto economico ormai completamente diverso da quello del secondo dopoguerra.

Ci vuole un tetto alla diseguaglianza che non intacchi le libertà economiche civili e politiche di cui godiamo. Serve un freno a questa deriva plutocratica che consegna ai ricchi un’influenza politica infinitamente più alta di quella che ciascuno di noi esercita col voto (quando lo usa). Serve tutto questo (e probabilmente altro) se non vogliamo che il patto sociale alla base del periodo più pacifico e prospero della storia non giunga a un tramonto assai cupo.

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