Temo che quanto è avvenuto in Francia non sia segno di un cambiamento, ma segno di una preoccupazione estrema che ha svegliato solo interessi concreti (pericoli di discriminazioni per i diversi per origine o per genere, preoccupazione dei giovani per il loro futuro, … timori per forti riduzioni del welfare).
Temo che non sia neanche da attribuire a un’azione degli intellettuali (assenti e comunque non comprensibili – sono veramente pochi quelli che con le idee partecipano a iniziative, critiche e concrete, per le alternative, per la loro manutenzione e per le verifiche in corso d’opera).
Non voglio però negare (anzi lo spero) che possano aver influito, invece, le preoccupazioni per una ideologia che entusiasma la destra. Siamo, infatti di fronte all’avanzare di una visione conservatrice del mondo, paralizzata dal non voler o non saper come affrontare, consapevolmente e con responsabilità condivise, la gestione della complessità dei sistemi vitali. Una visione che tende a difendere l’esistente, che rimane ipnotizzata da questa visione e che diventa schiava dei prepotenti meccanismi di conservazione del potere del sistema economico-finanziario globale. La destra conservatrice, incapace di comprendere gli equilibri vitali e le relazioni dinamiche che li alimentano, trova espressioni passive (che danno un’idea solo formale di vitalità) nel “fare le cose” destinate ai distruttivi Luna Park dei consumi. La capacità di consumo diventa, così, la misura di un esistere, interpretato secondo un senso comune delle cose, che inventa e sa risolvere solo falsi o banali problemi: quelli necessari per distrarre e disorientare intere nazioni dai veri problemi. Problemi che, le scelte conservatrici di una politica di governo (per incapacità o per una interpretazione deterministica di un modo, considerato unico e giusto di vivere) non intendono affrontare o che temono possano diventare ostacolo alla linearità di un sistema di potere che comanda e che sopravvive imponendo un ordine esecutivo a un mondo di sudditi.
Poi c’è il problema della partecipazione, unica strada della democrazia, che non può essere ridotta a un deviato “darsi da fare” per fare incetta di consensi elettorali (lo fanno anche molte dittature, “le democrature“).
Credo che se non si affronta il problema della partecipazione consapevole e motivante (individuale e collettiva, l’una a sostegno dell’altra), chi ha deciso di non andare a votare, continuerà a non andare a votare semplicemente perché non ne ha motivo e forse si sente anche un impotente sconfitto.
Meno martellate mentali finalizzate a colpevolizzare chi non fa massa (popolo bue), e invece più ascolto, per ricercare e poi applicare, i risultati, per la soluzione di reali problemi: senza escluderne nessuno, ma costruendo scale di priorità condivise.
Questo metodo funzione nel campo dell’innovazione tecnologica (R&S) ed è anche seguito nel campo della formazione in situazione (R-A) ma … non so perché in politica non trova applicazione (non è un toccasana, ma fa crescere le coscienze e poi, …).
Senza affanni e attese di successi epocali, proviamo a interrogarci? Non lasciamo mute e senza relazioni le nostre ricche risorse di diversità, ma soprattutto sosteniamo, con dovuto rispetto e senza invasioni di campo, l’impegno dei più giovani verso intenzioni e iniziative critiche autonome, perché possano essere autori consapevoli e responsabili di progresso umano e non solo di sviluppo economico.
*(ambientalista, socio Cuf, Bari)