Qualche domanda aspettando Papa Francesco a Trieste, di Matteo Liut

A Trieste, in questo lembo ritirato d’Italia, allo stesso tempo crocevia aperto e travagliata strettoia verso mondi e culture diverse, il laboratorio delle Settimane sociali ha mostrato tutta la vitalità che i cattolici sono ancora in grado di esprimere. Il mosaico triestino ha confermato il desiderio e la capacità dei credenti di abitare tutte le frontiere sulle quali si muove l’umanità del nostro tempo. E, quindi, che cosa aggiunge davvero la visita del Pontefice a questo movimento di popolo – non solo ricettivo, ma anche proattivo e capace di percepibile entusiasmo – che non si lascia scoraggiare dalle difficoltà di questa inedita stagione?
C’è un’idea ricorrente che in questo genere di eventi è sempre sottesa e puntualmente cavalcata dagli osservatori esterni: il Papa è ovviamente un motivatore, è un leader spirituale che incita e invia i “suoi”, e questo è sempre l’aspetto più comprensibile agli occhi del mondo, più appetibile per i media, ovunque nel pianeta il Papa si rechi in visita. Di certo ognuno di noi ha bisogno di guide autorevoli capaci di esaltarci in quello che facciamo e, in questa necessità profondamente umana, i cattolici non fanno eccezione.
Eppure, per loro può non essere la dimensione prevalente. Ciò che conta, infatti, è che il Pontefice, con la semplice sua presenza, è sempre il segno di un’alterità radicale, che è sempre origine e metro dell’agire della Chiesa nella storia. Il Papa sta in mezzo alla comunità cristiana come il segno più evidente e universalmente riconosciuto di quel principio della differenza che ci ricorda l’inizio e la fine del nostro esistere, di quella relazione con l’assoluto che innerva e anima ogni gesto e ogni scelta dei battezzati nella storia.
In questo modo egli ricorda il criterio ultimo che deve reggere e governare l’impegno in tutti gli ambiti, dalla cura dei fragili alla transizione ecologica, dall’animazione di una politica fondata sulla dignità umana alla costruzione di un’economia pienamente civile. Con i suoi gesti così teneramente umani, i suoi discorsi che con famigliarità non temono di affrontare le questioni più complesse, così come quelle più quotidiane, Francesco ha continuamente dimostrato che la fede può fare la differenza, può guidare il presente e il futuro. Ma richiede sempre e continuamente di aprirsi all’alterità. Che significa anche saper accettare il “disordine” che la relazione con chi è altro, con ciò che è Altro, porta con sé.
In lui i cattolici non possono, insomma, non vedere il testimone dell’unica risposta possibile a quell’inquietudine profonda che ci riguarda tutti e ribolle dentro il nostro innegabile desiderio d’infinito. Ecco, il Papa a Trieste non sarà come un totem tribale che raduna e marchia con uno stemma di partito o tribù politica, ma sarà un dito puntato verso ciò che non è imbrigliabile dentro un discorso semplicemente umano, verso ciò che sfugge continuamente al tentativo di essere definito, normato, controllato. Bella sfida per i cattolici: dare sostanza a una democrazia che rispetti il “disordine dell’alterità”, che faccia del tu – e non dell’io – il vero fondamento dell’ordine, delle istituzioni, delle leggi e delle relazioni. Ci saranno parole e discorsi da ascoltare dal Papa, che come sempre saprà dare ottimi spunti sui cui riflettere. Ma in definitiva il suo semplice esserci è un segno che assume in sé e sintetizza tutto il senso delle Settimane sociali: è il tu – ma anche il Tu – che apre al noi il cuore della democrazia.

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