L’Europa è impreparata ad affrontare i costi della crisi climatica, di Rita Cantalino

Il bilancio dei costi della crisi climatica in Europa non lascia spazio a dubbi. Gli investimenti messi in campo fino a ora appaiono insufficienti, spesso mal orientati. A dirlo, una serie di studi finanziati dalla Commissione europea e sviluppati con la Banca Mondiale. Anche l’Italia deve fare la sua parte, secondo l’ultimo rapporto dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile. Rallentare ulteriormente la transizione energetica, a detta dell’ASviS, potrebbe portarci a perdere il 30% del prodotto interno lordo (PIL).
I costi della crisi climatica in Europa hanno raggiunto i 77 miliardi di euro nel 2023
Nel mondo, l’Europa è l’area che si sta riscaldando più velocemente: la crisi climatica ha già portato costi molto elevati e, senza raddrizzare il tiro, andrà sempre peggio. Secondo i dati a nostra disposizione, nel Vecchio Continente il 2023 è stato l’anno più caldo mai registrato e i disastri connessi al clima hanno generato perdite per 77 miliardi di euro.
Le inondazioni del 2021 sono costate 40 miliardi di euro solo in Germania. Gli incendi, da parte loro, hanno provocato danni che ammontano a 2 miliardi per la Grecia, circa un miliardo per l’Italia e a 913 milioni di euro per la Spagna. Nell’Unione europea, solo la risposta agli incendi boschivi ha assorbito più di un terzo dei costi totali dell’Union Civil Protection Mechanism (UCPM).
Con un aumento della temperatura media di 3°C, le perdite arriverebbero a 175 miliardi di euro: l’1,38% del PIL dell’Unione. Uno scenario di fronte al quale siamo completamente impreparati. Costruire una risposta alla crisi climatica fatta di investimenti, e non di costi e perdite, deve voler dire destinare maggiori risorse alla resilienza dei territori europei.
Servono investimenti ben orientati nell’adattamento
In Europa, tra il 1980 e il 2022, abbiamo perso 650 miliardi di euro a causa della crisi climatica: 15,5 all’anno. Le perdite economiche hanno svelato uno scenario inquietante: le infrastrutture utili a costruire risposte efficaci sono troppo vulnerabili. Strade, linee elettriche ed edifici non sono adeguati a quanto potrebbe accadere: l’80% delle strade, per esempio, è altamente suscettibile di frane. Il che significa, tra l’altro, che eventuali soccorsi sarebbero probabilmente ritardati. Addirittura le caserme dei pompieri sono un problema. Nella metà degli Stati dell’Unione europea, infatti, sono situate in aree ad alto rischio, alla mercé di incendi, inondazioni, terremoti o frane. Per il futuro, è indispensabile che gli investimenti nelle politiche di adattamento siano ben orientati.
Sono troppe, secondo l’analisi, le lacune in materia di destinazione dei fondi ed è eccessivo il ricorso ai meccanismi di trasferimento di rischi come le assicurazioni. Dati alla mano, se l’ampia ondata di incendi boschivi del 2017 (che ha generato più di 100 morti) dovesse verificarsi adesso, per rispondere servirebbe un aumento del 70% del preventivo annuale dell’UCPM.
Secondo le stime, terremoti e alluvioni rilevanti potrebbero portare a un deficit di budget tra i 13 e i 50 miliardi di euro. E non stiamo tenendo conto dell’eventualità che possano verificarsi due o più eventi gravi nello stesso periodo. Se, per esempio, arrivassero una siccità o un incendio in un anno nel quale c’è già stato un terremoto o un’alluvione, saremmo assolutamente impreparati, in termini finanziari, a gestire i danni.
Non è troppo tardi per rendere l’Europa più resiliente di fronte agli eventi climatici estremi
Servono finanziamenti che rendano l’Unione europea più resiliente di fronte agli eventi estremi determinati dalla crisi climatica. Attualmente nel Continente si spendono tra i 34 e i 110 euro a cittadino per i costi di adattamento: di questo passo, entro il 2030, la crisi climatica costerà tra i 15 e i 64 miliardi di euro. Almeno tra l’ 0,1 e lo 0,4% del PIL europeo dev’essere destinato ad affrontarla. Non farlo vorrebbe dire aggravare ulteriormente i costi. Tutti gli scenari possibili di evoluzione della crisi climatica in Europa li vedono arrivare almeno al 2,2% del PIL entro il 2070. Un quarto degli Stati potrebbe subire perdite fino al 5%. Nello scenario peggiore, si brucerebbe il 7% del PIL dell’Unione.
Non è troppo tardi, sottolinea Sameh Wahba, direttore della Banca Mondiale: «C’è ancora tempo per i Paesi europei per intraprendere azioni che proteggano la vita delle persone, le infrastrutture e le finanze pubbliche dagli impatti dei disastri e dei cambiamenti climatici». L’esortazione è a migliorare gli attuali piani per evitare che la crisi mieta ulteriori vittime anche dal punto di vista sociale. «I disastri sono devastanti per tutti ma possono avere un impatto sproporzionato sulle comunità più vulnerabili d’Europa, aumentando la povertà e la disuguaglianza», ha detto Wahba.
Se concentrati nelle aree e nei settori più vulnerabili, gli investimenti permetterebbero di salvare le persone ed evitare l’interruzioni di servizi essenziali. Bisogna svecchiare le infrastrutture, adattare le reti critiche di elettricità, telecomunicazioni e trasporti, sviluppare percorsi di adattamento combinando i dati attuali e futuri sul rischio climatico. Tenendo a mente che i problemi complessi richiedono approcci altrettanto complessi. Quello che sembra sufficiente oggi potrebbe non esserlo domani: servono risposte scalabili. In uno scenario incerto che vede la temperatura globale salire tra i 2 e i 4 gradi, si potrebbero raggiungere dieci dei sedici tipping points, le soglie globali di non ritorno. Tra queste, i pericoli imminenti sono le perdite di ghiaccio nel mare di Barents e la liberazioni di blocchi di ghiaccio in Artico.
Anche per l’Italia, la transizione energetica è un’occasione di crescita e innovazione
Politiche trasformative efficaci potrebbero comportare notevoli benefici ambientali e socioeconomici. L’importante è agire in fretta, anche se le conseguenze non saranno immediate e politicamente spendibili. È ormai certo che i prossimi vent’anni di impatti climatici sono già segnati: le azioni che servono adesso devono bloccare i cambiamenti che arriveranno.
Anche per il nostro Paese si apre una stagione di investimenti che, se ben orientati, potranno generare importanti benefici. Il rapporto ASviS “Scenari per l’Italia al 2030 e al 2050. Le scelte da compiere ora per uno sviluppo sostenibile” fa il punto sulle scelte non più rimandabili ipotizzando quattro scenari, dalla “Net Zero Transformation” ai piani meno ambiziosi di “business as usual”, “transizione tardiva” e totale inazione.
«L’analisi indica con chiarezza che l’Italia deve cogliere la transizione energetica come occasione per fare innovazione a tutto campo», spiega Enrico Giovannini, direttore scientifico dell’ASviS. «Chi vuole rinviare la transizione in nome dei costi da subire nei prossimi anni per realizzarla successivamente in realtà punta a scaricare sui più deboli e sulle generazioni future i danni dell’inazione». Secondo Giovannini, le attuali politiche energetica, climatica, sociale e istituzionale sono «incerte e contraddittorie», nonostante gli impegni assunti in diverse sedi nazionali e internazionali dai nostri rappresentanti istituzionali.
Investire entro cinque anni nella transizione energetica e le giuste politiche a supporto di innovazione e investimenti potrebbe portare un aumento dell’occupazione. Il PIL potrebbe crescere di 2,2 punti.
 Stare fermi, al contrario, ci condurrà al disastro certo. Nessuna delle 20 Regioni presenta miglioramenti sostanziali negli Obiettivi di sviluppo sostenibile e ci sono diversi arretramenti. La povertà sta crescendo, così come la degradazione dei sistemi idrici e igienico-sanitari; peggiorano anche gli ecosistemi terrestri e marini. Senza azioni di mitigazione e adattamento, le temperature nel nostro Paese aumenteranno fino a 3°, con un crollo a picco del 30% del PIL. Cambiare rotta, invece, consentirebbe di aumentare il reddito e ridurre le disuguaglianze.

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