La smania non aiuta le riforme, di Antonio Polito

Come se non bastassero il premierato, l’autonomia differenziata e la riforma della magistratura, il centrodestra mette sul piatto anche il cambiamento della legge elettorale per i Comuni. E nel più autorevole dei modi: con un intervento del presidente del Senato e in nome della lotta all’astensionismo.
 C’è da chiedersi se tutta questa carne al fuoco produrrà solo fumo o anche un po’ di arrosto. La serietà di un intento riformatore si giudica infatti dal suo realismo e dalla sua prudenza, dalla coerenza delle proposte e dall’approfondimento dei temi. Qui si dà invece l’idea di andare un po’ alla giornata, inseguendo i risultati elettorali: la bassa affluenza alle europee (49,7%) non aveva preoccupato più di tanto i vincitori di quella tornata, mentre un’affluenza alle Comunali non molto dissimile (47,7%) ha molto allarmato gli sconfitti del ballottaggio. E si dà anche la sensazione di appaltare ogni pezzo di riforma a un diverso pezzo della maggioranza, finendo così con l’affastellare nodi prima di averne sciolto altri: mentre la legge del premierato ha ancora un grosso buco, non dicendo nulla su come si intende eleggere questo premier che si pretende eletto direttamente (con quale maggioranza, con che soglia, col ballottaggio o meno?), ecco che già si passa alla soglia e ai ballottaggi del sistema per l’elezione dei sindaci, che tra l’altro stanno lì da più di trent’anni senza grossi problemi.
Con il rischio di accrescere la confusione invece di ridurla: in Italia ci sono sistemi elettorali diversi per Comuni, Regioni, Parlamento nazionale e Parlamento europeo, e non sono armonizzate neanche le scadenze elettorali, tant’è che si vota di continuo. Attenzione: non che le nostre istituzioni non abbiano un gran bisogno di riforme, aggiustamenti, miglioramenti. Il sistema politico-elettorale non funziona come dovrebbe e potrebbe (anche se oggi nessun modello straniero può dare lezioni, visti i problemi che hanno avuto in Gran Bretagna, hanno in Germania e potrebbero presto avere in Francia). La questione della debolezza degli esecutivi non se l’è inventata Giorgia Meloni, ma era chiara già a Bettino Craxi e a Massimo D’Alema, a Silvio Berlusconi e a Matteo Renzi, che hanno provato variamente a risolverla fallendo.
Una riforma in senso federale del rapporto tra Stato e Regioni era già nel programma di Occhetto ed è stata inserita in Costituzione con il governo Amato dal centrosinistra, quando la destra da cui proviene Giorgia Meloni era fortemente contraria in nome dell’unità della Patria Italia. Per non parlare della separazione delle carriere tra giudici e pm e del correntismo nel Csm, questione più che aperta, sanguinante da almeno trent’anni nell’assetto della Repubblica.
Ma dovrebbe ormai essere chiaro a tutti che la Grande Riforma non è mai riuscita a nessuno. Perché coalizza troppi nemici contro, e trasforma il conflitto politico in un giudizio di Dio. Bisogna saper scegliere le priorità. Fare una cosa alla volta (i Cinquestelle ci sono riusciti con il taglio dei parlamentari). Non si può fare la Grande Riforma a pezzi, come pare stia tentando ora il centrodestra, perché si rischia così di aprire una guerra termonucleare a pezzi in Parlamento e nel Paese. Ed è un discorso che riguarda anche l’opposizione: qualcuno s’immagina che spaccatura senza precedenti sarebbe una campagna referendaria «Sud contro Nord» a proposito dell’autonomia (senza dimenticare che per avere successo un referendum abrogativo dovrebbe portare alle urne 25 milioni di italiani, cioè 2 milioni di elettori in più di tutti quelli che hanno votato alle ultime europee, 13 milioni di elettori in più di tutti quelli che hanno votato per l’opposizione)?
E sì, perché il modo in cui si cambiano le regole del gioco è almeno altrettanto importante del come si cambiano. La contrapposizione strumentale con cui gli schieramenti affrontano ogni ipotesi di riforma è stucchevole: «Una parte propone oggi orgogliosamente quel che aveva sdegnosamente rifiutato in passato e l’altra rifiuta sdegnosamente quel che in sostanza aveva già proposto ieri», come si legge in un documento di un gruppo di fondazioni e associazioni «non partisan». La mancanza di un vero dibattito nel Paese si trasforma così in uno scontro tra avanguardie pro e contro, e restringe, non allarga, l’interesse popolare per materie già difficili da comprendere.
Eppure razionalità vorrebbe che almeno le due principali forze politiche, Fratelli d’Italia e Partito Democratico, si ponessero il problema di scrivere le regole della Repubblica di domani sotto il «velo dell’ignoranza», come fecero i Padri Costituenti: ponendosi cioè la domanda di che cosa è meglio per il Paese non di che cosa gioverà a loro, che si alterneranno al governo e all’opposizione. Questa è del resto la virtù migliore di un bipolarismo temperato. Ci hanno appena detto, con soddisfazione, che il bipolarismo sta tornando; e hanno anche ragione, visto che nel centrodestra la forza egemone di Meloni stacca di 20 punti percentuali la seconda, e nell’opposizione quella di Schlein stacca Conte di 15 punti. Ma ciò mette più responsabilità sulle spalle delle due leader. Da qui alle prossime elezioni i problemi concreti dell’Italia, anche più concreti delle riforme istituzionali, come il livello dei salari privati e quello del deficit pubblico, i tagli alla spesa e la spesa per interessi, la competizione degli Usa e della Cina alla nostra manifattura, richiedono — innanzitutto in chi governa — uno spirito fattivo, che non cerchi la rissa ogni giorno, che apra canali di dialogo con tutti per non trasformare ciò che resta della legislatura in un percorso di guerra. Perché, se è questo il nuovo bipolarismo che annunciano, Dio ce ne scampi.
corriere.it/opinioni/24_giugno_26/la-smania-non-aiuta-le-riforme-1adda4fc-fdbc-466e-a0e0-c0f5f9655xlk.shtml

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