«Il vostro non è un paese buono», di Marco Bellizi

«Il vostro non è un paese buono». No, povera Sony, ragazza di 26 anni che viene dall’India. Hai ragione. L’Italia non è un paese “buono”. Se a qualcosa può servire la morte di tuo marito Satman Singh, lasciato a dissanguare davanti casa dopo aver perso un braccio nei campi dell’agro pontino, che sia almeno la presa di coscienza di questa realtà. L’Italia non è un paese “buono”; non lo è più degli altri. O, se si preferisce, è “cattivo” tanto quanto gli altri.
Satman è morto, dopo 48 ore di agonia. Trentatré anni, l’altra mattina, nonostante le alte temperature, era montato su un veicolo qualsiasi insieme con la giovane consorte Navi, 26 anni, sogni in tasca e nostalgie nel cuore. Nel “campo di lavoro” a un certo punto, il macchinario che si usa per riavvolgere il telo steso sugli ortaggi per proteggerli, loro sì, dalle intemperie, ha risucchiato il braccio di Satman, tranciandolo. Il resto sarebbe un racconto degno di un film dell’orrore: sangue ovunque, la carne martoriata, le grida (di Sonyi), qualcuno che raccoglie il braccio come un pomodoro qualsiasi e lo deposita in una di quelle cassette di plastica che si usano per il mercato. Il titolare dell’impresa agricola, secondo le ricostruzioni, avrebbe preso marito e moglie indiani, e cassetta, e li avrebbe caricati sull’auto per poi scaricarli davanti alla loro povera abitazione, a pochi chilometri dal campo. “Credevo che ci portassero in ospedale”, ha raccontato Sony. Non era possibile che accadesse, naturalmente, perché a quel punto sarebbe venuta alla luce tutta la serie di eventi illeciti che hanno condotto al tragico esito.
Secondo quanto emerso, Satman e Sony ovviamente lavoravano “in nero”, senza contratto, senza alcuna tutela, figuriamoci sotto il profilo della sicurezza. Due fantasmi, in sostanza. Come tanti che ogni mattina vengono raccolti dai “caporali”, scaricati nei luoghi di lavoro e a fine giornata riportati indietro.
Satman e Sony sono quelli che si definiscono “immigrati economici”. La fame non è un requisito opportuno, secondo molti paesi, per riconoscere uno status tale da meritare protezione e cittadinanza. Eppure, con la pancia vuota non si può ragionare di politica e di filosofia. Papa Francesco, proprio oggi, nel tweet postato in occasione della Giornata del rifugiato, fa riferimento all’“umanità”, alla capacità di riconoscere nell’altro noi stessi, i nostri figli. I figli che vanno a lavorare in fabbrica, nei cantieri e nei campi e che muoiono, in fabbrica, nei cantieri e nei campi. I figli risucchiati dalle macchine, come l’italiana Luana D’Orazio, triturata da un impianto tessile poco più di due anni fa. Perché purtroppo tutti muoiono sul lavoro, non solo gli immigrati.
E allora, si tratta di capire quali sono le nostre priorità come cittadini e di renderle magari agende politiche per le istituzioni. Al momento, povera Navi, la priorità del Bel Paese non è quella di occuparsi dei suoi fantasmi. Però, con la saggezza del cuore, quello che c’era da dire l’hai detto tu. Guardando a questa tragedia, l’Italia non sembra un paese buono. Ammetterlo, ci si augura, è il primo passo per cambiare.

osservatoreromano.va/it/news/2024-06/quo-139/il-vostro-non-e-un-paese-buono.html

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