Raramente, in politica, c’è un’interpretazione condivisa di un evento. Così è avvenuto con i risultati elettorali del 6-9 giugno scorsi, dopo che 180 milioni di europei sono andati a votare per scegliere i 720 membri del Parlamento europeo. Tre interpretazioni si sono contese quei risultati. La prima interpretazione sostiene che le elezioni per il Parlamento europeo sono state vinte dalle forze della destra nazionalista. È vero. Sia le forze radicali che fanno parte del raggruppamento dei Conservatori europei (i due partiti-leader, Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni ha raggiunto quasi il 30 per cento e Diritto e Giustizia di Jarosław Kaczyński il 36,6 per cento, pur arrivando secondo in Polonia) che le forze estreme che fanno parte del raggruppamento di Identità e Democrazia (il partito-leader, il Rassemblement National di Marine Le Pen ha superato il 30 per cento, con Alternative für Deutschland diventato, in Germania, il secondo partito nazionale con più del 16 per cento dei suffragi).
Quest’ultimo partito era stato espulso da Identità e democrazia pochi giorni fa ma è già forte la pressione per farlo rientrare. La crescita delle due destre è avvenuta nei principali Paesi europei piuttosto che in quelli medio-piccoli. Tuttavia, se nel 2019, le due destre (Conservatori europei e Identità e Democrazia) avevano ottenuto, insieme, 118 seggi, con le elezioni del 2024 ne hanno ottenuti 131. In percentuale, si tratta di un aumento dell’1,5 per cento, come ha documentato Roberto D’Alimonte su questo giornale. Quindi, la destra in generale è cresciuta, ma non abbastanza per dare vita, insieme al centrodestra del Partito Popolare Europeo (Ppe), ad una nuova maggioranza parlamentare.
La seconda interpretazione sostiene, infatti, che la maggioranza centrista (Ppe, Socialdemocratici e Liberali) esce confermata dalle elezioni parlamentari. È vero. Se la maggioranza è di 361 seggi, i tre partiti centristi, insieme, arrivano ad avere 400 seggi. Naturalmente, ai seggi non corrispondono i voti, in quanto nel Parlamento europeo non vige la disciplina di partito. Comunque, di fronte all’ascesa della destra, il centro resiste, anche se difficilmente potrà considerarsi autosufficiente. Viste le idiosincrasie dei partiti presenti in Parlamento europeo, la maggioranza centrista, per mettersi al sicuro, dovrà aprirsi alla sua sinistra (ai Verdi) oppure alla sua destra (ai Conservatori europei). Ma qualsiasi apertura avrà i suoi costi. La coperta della coalizione è stretta, si copre da una parte e si scopre dall’altra. Inoltre, vi sono 90 parlamentari che non hanno ancora scelto con chi stare. Quindi, il centro ha tenuto, ma non abbastanza da considerarsi autosufficiente.
La terza interpretazione sostiene, infine, che i risultati delle elezioni europee sono rilevanti per una ragione più profonda. Essi indicano una crisi inedita e contestuale dei due Paesi (Francia e Germania) su cui si è finora basato il processo di integrazione europea. È vero. Per quanto riguarda la Francia, essa sta registrando da tempo la crescita sistematica del Rassemblement National di Marine Le Pen, una forza politica che ha le sue radici nell’ “esperienza di Vichy” e una leader politica che considera prioritario ricostruire la “nazione francese”. Non si tratta del Gaullismo, che pure riconosceva l’importanza del coordinamento tra i Paesi europei (e tra Francia e Germania in particolare) emerso dopo la Seconda guerra mondiale, ma della visione di un’Europa delle nazioni in cui ognuna di esse è libera di organizzarsi internamente come vuole (anche sul piano costituzionale), come avveniva nell’Europa precedente la Seconda guerra mondiale. Marine Le Pen non propone più Frexit (l’uscita della Francia dall’Ue), ma è determinata a svuotare l’Ue dall’interno. Ad esempio, ostacolando passi integrativi nella politica comune della difesa, anche in coerenza con la sua posizione pro-Russia. Per quanto riguarda la Germania, le elezioni per il Parlamento europeo hanno mostrato il clamoroso fallimento della politica mercantilistica perseguita dal governo Scholz, sulle orme del governo Merkel. La Germania non ha un cervello con cui pensare alla nuova epoca in cui siamo entrati, essendo Scholz e gli altri leader della coalizione degli amministratori delegati degli interessi lasciati dall’epoca precedente. Nel vuoto è così cresciuta Alternative für Deutschland, divenuta il secondo partito del Paese ma anche il primo in tutti e cinque i Länder dell’est. Nonostante i massicci investimenti federali di cui hanno beneficiato questi ultimi negli ultimi trent’anni, il comportamento elettorale dei loro cittadini non è dissimile da quello degli ungheresi e dei polacchi. La Germania dell’est continua ad essere cognitivamente legata a Mosca più che a Berlino. Un’attitudine che, sovrapponendosi con il pacifismo istituzionalizzato della Germania dell’ovest, ha creato un Paese incerto di sé stesso (ad esempio, nell’aiuto all’Ucraina).
Insomma, sono plausibili interpretazioni diverse delle elezioni del 6-9 giugno. È vero che la destra è cresciuta, che il centro ha resistito e che la politica sia francese che tedesca siano drammaticamente involute. Il perno su cui si è basato finora il processo d’integrazione, l’asse franco-tedesco, si è bloccato. Il Parlamento europeo troverà presto la sua maggioranza, non è detto che l’Ue ricostruirà altrettanto presto il suo baricentro carolingio. Con conseguenze imprevedibili.
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