Le elezioni europee sono un puzzle variegato che sfugge a una lettura semplificata. Ci sono tanti fattori nazionali che si compongono in un quadro disomogeneo. E tuttavia, anche in questa tornata, le urne hanno fatto emergere un messaggio di fondo che sarebbe bene non lasciar cadere: in Europa, le democrazie resistono anche se sono indebolite da una malattia ormai cronicizzata che faticano a superare. Nella tornata elettorale, questo stato di difficoltà è affiorato attraverso tre sintomi molto evidenti.
Il primo è l’astensionismo. A livello europeo siamo al 51% mentre in Italia per la prima volta nella storia repubblicana siamo scesi sotto il 50%. Più che un segno di protesta attiva, l’astensionismo va interpretato come distacco, indifferenza, sfiducia. Tanti elettori non riescono più a capire l’importanza della politica e della sua matrice democratica. Sono disincantati, se non addirittura cinici.
Il secondo sintomo è l’affermazione (in alcuni Paesi) dell’estrema destra. Con partiti dichiaratamente xenofobi che usano toni carichi di odio e che, in alcuni casi, non prendono con chiarezza le distanze dall’uso della violenza.
Un fenomeno che non è nuovo ma che, pur all’interno di limiti che sembrano per il momento insuperabili, continua a riprodursi. E che proprio per questo non va sottovalutato. Infine vi è il tonfo elettorale dei partiti che sostengono i governi di due Paesi fondamentali come la Francia e la Germania. Una débâcle che certamente peserà sull’Europa dei prossimi anni. E che desta molte preoccupazioni. Come dimostra l’inusitata – e a parere di chi scrive azzardata – decisione di Macron di convocare le elezioni parlamentari per fine mese.
Se si vuole vedere il bicchiere mezzo pieno, si può dire che esiste ancora in Europa una maggioranza relativa (ma non assoluta) di cittadini che chiede un buon governo. Che è consapevole della necessità di ricomporre la vita personale con quella collettiva. In particolare, il partito popolare mantiene una buona stabilità, superiore a quella dei partiti socialisti. Ma rimane il fatto che, nel loro insieme questi partiti – che si apprestano a costituire la prossima maggioranza parlamentare nel parlamento di Bruxelles – raccolgono un consenso limitato. Rispetto a trent’anni fa, quando fu firmato il trattato di Maastricht e fu creato l’euro, il quadro è completamene diverso.
Mettendo insieme queste osservazioni, in filigrana si scorge la questione di fondo: è dalla crisi finanziaria del 2007-2008, che in Europa il modello socio-economico non riesce più a costruire il consenso necessario a stabilizzare la democrazia. Il ceto medio è in ritirata, le disuguaglianze aumentano, i giovani faticano ad avviarsi alla vita attiva, mentre ci sono interi gruppi sociali e intere aree geografiche che vanno alla deriva. Basta fare un giro in una delle tante periferie urbane o nelle aree interne o più fragili dei veri Paesi. Da tempo, molti cittadini hanno smesso di credere alla promessa della crescita. E ritengono che il sistema politico sia incapace di intervenire in maniera efficace sulle ragioni di fondo di queste tendenze. E non hanno tutti i torti.
Il cambiamento geopolitico e tecnologico – uno spaccato è stato fornito durante il G7 – richiederebbe aggiustamenti strutturali. Uno per tutti: abbiamo una montagna di risorse finanziarie concentrate nelle mani di pochi e che perciò non vengono impiegate per sostenere quella transizione giusta di cui tutti sentono la necessità. Una situazione che, come insegnava nel secolo scorso, John Maynard Keynes, rischia di minare la democrazia. Il problema è che la politica non ha né il coraggio, né l’autorevolezza, né la visione per affrontare questo e altri nodi di fondo. A cominciare dai temi istituzionali dell’Unione Europea, come il diritto di veto. Ridotta nel suo potere reale e nelle sue ambizioni, la politica si limita a rimanere a giocare sul piano superficiale (e sempre più stucchevole) della comunicazione, della schermaglia polemica, dello sfruttamento del personaggio mediatico del momento per acquisire qualche voto in più.
In sostanza: le democrazie resistono. Si dimostrano più resilienti di quanto avremmo potuto pensare. Nonostante le difficoltà, non hanno (finora) ceduto alle sirene più pericolose. Ma sarebbe fatale immaginare che questa situazione possa durare in eterno.
Il nuovo Parlamento Ue dovrà dimostrare di essere capace di risolvere nei fatti i nodi enunciati nelle settimane di campagna elettorale. L’unico modo per ricostruire la fiducia nelle istituzioni è confermare ciò di cui oggi molti dubitano: cioè che la democrazia, il dialogo, la rappresentanza, lo stato di diritto costituiscono il metodo migliore per affrontare e risolvere le questioni comuni. Il tempo è ora.
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