Per chi suonano le campane dei vescovi, di Ezio Mauro

Per chi suonano, nel Paese confuso in cui viviamo, le campane dei vescovi? Non ce lo domandavamo più da tempo, come se dopo l’assedio del Covid il virus del vuoto avesse continuato a spalancare il silenzio sulla piazza italiana, soffocando il dialogo millenario tra la cattedrale, il municipio e la prefettura, simboli urbani della convivenza delle tre autorità che abitano la storia delle nostre città nei secoli della tradizione. Ma improvvisamente la destra ha attaccato la Conferenza Episcopale italiana, accusandola di fare politica, con un’inversione singolare dei ruoli e delle abitudini, visto che quelle critiche alla Chiesa operante sul territorio delle 226 diocesi nazionali venivano abitualmente dalla sinistra. Cos’è successo? Proviamo a capire.

L’ultima occasione è una nota ufficiale della Cei che attacca frontalmente il progetto di autonomia differenziata, la vera battaglia strategica della Lega che Salvini ha trasformato in obiettivo capitale dell’intero governo. Poche ore prima il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza Episcopale, aveva segnalato la “preoccupazione” dei vescovi per l’altra riforma-bandiera della maggioranza governativa, quel premierato su cui insiste personalmente Giorgia Meloni: “Penso che gli equilibri istituzionali vadano toccati con molta attenzione, molto equilibrio, molto spirito della Costituzione, perché si interviene su meccanismi delicati del funzionamento della democrazia”. Due attacchi congiunti, e la prova che qualcosa sta cambiando nel rapporto di influenza reciproca tra Stato e Chiesa sui principi, i precetti, le norme e i valori.

Come conferma il disappunto del leghista Calderoli, padre dell’autonomia, la destra guarda al prezzo politico da pagare per queste critiche, che rischiano di rallentare il cammino delle riforme-chiave della legislatura, consigliando una maggiore cautela e una più concreta apertura al confronto con l’opposizione. Ma in realtà il governo e la sua maggioranza farebbero bene a guardare alla vera natura dell’obiezione che viene dai vescovi, e che è culturale e non politica, nient’affatto tattica o strumentale, ma di principio. La vera novità infatti è l’irruzione nel lessico della Chiesa italiana di tre parole: solidarietà, democrazia, Costituzione. Se questi tre concetti diventano il cardine del criterio con cui l’ episcopato valuta le riforme governative, allora non c’è dubbio che la presa di distanza dal governo, e la condanna, diventano inevitabili.

I vescovi declinano il principio di solidarietà fino in fondo, considerandolo irrinunciabile, fino a dire che la scelta dell’autonomia schiera la riforma “pregiudizialmente dalla parte dei ricchi”, accentuando “gli squilibri oggi esistenti tra aree metropolitane e interne, tra centri e periferie”, col rischio di far crescere le disuguaglianze già oggi evidenti in campi sensibili come la salute, mentre il Paese “non crescerà se non insieme”, senza minare “quel vincolo di solidarietà tra le diverse regioni che è presidio all’unità della Repubblica”. Per sganciare i progetti di riforma istituzionale dalle tattiche del momento, dai vantaggi immediati e dai calcoli politici occorre secondo la Cei “la capacità di pensare qualcosa che non sia contingente”; e questo significa in concreto “creare un clima costituente, capace di coinvolgere quanto più possibile le varie componenti non solo politiche ma anche culturali e sociali, come fu all’origine della Costituzione”.

La Costituzione entra nel vocabolario civile della Chiesa, dopo averle posto per decenni la questione del metodo democratico: che in democrazia non contempla nessuna verità assoluta, perché nei parlamenti tutte le verità sono relative e si compongono nella logica del numero che fissa la dialettica tra maggioranza e opposizione. Anche chi è portatore nella sua coscienza di valori assoluti, ovviamente con il pieno diritto di professarli, sostenerli e difenderli nella battaglia politica, deve prendere atto che nel gioco del confronto democratico quell’assoluto può finire in minoranza, diventando da universale un principio di parte. Non solo: in caso di conflitto tra la legge del Creatore e la legge delle creature nei parlamenti prevale quest’ultima, perché è scritta con l’obiettivo di tutelare i diritti fondamentali, però di tutti, quindi di chi crede e di chi non ha legami con il trascendente.

Oggi la Chiesa ritorna nel cuore del discorso pubblico, partecipando come soggetto attivo a partire dalla proposta dei suoi principi, ma accettando il criterio democratico e la regola di maggioranza. Negli anni scorsi, quando la Cei prese atto che il cattolicesimo stava diventando minoranza in Italia, il cardinal Ruini lanciò l’operazione “riconquista”, con una rievangelizzazione della società e con un nuovo impegno dei cattolici nella battaglia dei valori, in concorrenza con le agenzie cultural-politiche che contendevano il mercato. Una sfida che non faceva più leva su un soggetto politico di riferimento, e che bisognava giocare in proprio, senza mediazioni, basandosi sui contenuti. Ma l’insidia di quel che don Giussani chiamava “il moderno fariseismo”, (cioè la tendenza dell’uomo d’oggi a farsi lui stesso misura del giusto e del bene), la convinzione che l’ indifferentismo etico stesse sostituendo il marxismo, la diffidenza per l’integrazione europea come acceleratore della scristianizzazione nazionale in favore dell’indistinto democratico, portavano la Chiesa italiana a far camminare il Dio italiano appena evocato in un percorso parallelo a quello della destra berlusconiana, con un’alleanza di potere.

I vescovi italiani riprendono oggi quel cammino, ma la direzione di marcia è libera. La ragione è che la Cei sembra essere uscita dall’angoscia ruiniana per la deriva nichilista, vissuta come l’eterna tentazione del pensiero occidentale, che comportava un’autodifesa d’emergenza per il mondo cattolico, sollecitato a muoversi dentro il discorso pubblico nel perimetro di garanzia dei “principi non negoziabili”: quindi dei precetti più che dei valori. Oggi la Chiesa italiana è probabilmente più debole, ma nello stesso tempo più autonoma, pronta a tradurre i principi ideali nella vita quotidiana delle persone, aprendo un fronte sociale oltre a quello culturale. Una posizione che porta inevitabilmente i vescovi a confrontarsi con l’identità cristiana esibita e rivendicata da una destra di governo, ma come un elemento della tradizione, un paesaggio di fondo, una nostalgia familiare e nazionale, nient’affatto vincolante per le politiche di governo, come dimostrano le scelte sui migranti. La destra cerca nella Chiesa un pensiero fondante che oggi non ha, offrendo in cambio una forza che la Chiesa ha in parte perduto, e scambiando sui temi della procreazione, del genere, della famiglia, come testimonia la presenza di Giorgia Meloni in piazza San Pietro ieri per la giornata mondiale dei bambini. Ma la vera partita riguarda la sostanza e non l’apparenza identitaria, ed è appena incominciata: è la sfida tra cristianesimo e cristianismo, che mentre si genuflette nella fede, la svaluta a ideologia.

 

Repubblica, 27 maggio 2024

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