Il continente africano viene spesso associato a quella gara di solidarietà che accomuna molte delle nostre comunità cristiane. Sono numerose infatti le aggregazioni d’ispirazione cristiana (gruppi missionari, associazioni, onlus…) che sono sorte in questi anni per sostenere economicamente le attività di evangelizzazione in Africa. Peraltro gli stessi istituti missionari, società di vita apostolica, congregazioni e ordini religiosi hanno studiato delle strategie di fundraising in grado di sostenere le attività pastorali e sociali. Poiché le necessità sono molteplici (sia spirituali che materiali), s’impone necessariamente una riflessione sull’uso del denaro sia per quanto concerne la raccolta, come anche in riferimento alla cosiddetta progettualità.
A questo proposito chi scrive ha maturato in questi anni alcune convinzioni frutto dell’esperienza raccolta nel vasto areopago missionario. Ad esempio, è giusto chiedersi quali siano le ragioni che hanno causato e tuttora determinano una dipendenza dagli aiuti “ad extra”, provenienti dai donatori internazionali (poco importa se istituzionali o privati). Inoltre, viene spontaneo domandarsi quali siano i motivi per cui gli aiuti non sono sempre riusciti a realizzare la trasformazione che ci si aspettava. Le motivazioni sono molteplici: dalla debolezza degli apparati statuali dei Paesi all’interno dei quali sono collocate le Chiese locali, in gran parte legato alle nuove forme di colonialismo, alla corruzione (spesso istigata dal comportamento invasivo di imprese straniere), acuita dall’assenza di sistemi di governance realmente competitivi e responsabili; dai donor che presumono di saperne di più di chi vive sul campo, all’atteggiamento paternalistico di chi è interessato solo all’impatto a breve termine. Vi è comunque quasi sempre un comune denominatore in questa complessa fenomenologia: la difficoltà in molti casi a concepire una progettualità sostenibile in grado di conseguire dei margini di autonomia. Queste considerazioni non possono naturalmente prescindere dal fatto che la carità evangelica va ben oltre l’efficienza imposta da certa filantropia.
Ecco perché forse, mai come oggi, sarebbe auspicabile promuovere una seria riflessione su questo tema dal punto di vista della teologia morale. Il compianto don Enrico Chiavacci, nella sua opera Teologia morale e vita economica, riassumeva l’insegnamento di Gesù in due comandamenti, validi per ogni discepolo: «Non accumulare tesori sulla terra» (cf. Mt 6,19-21) e «Dai quello che hai ai poveri» attraverso gesti radicali, concreti e mediazioni materiali, come ad esempio offrendo cibo agli affamati, curando i malati o fornendo ospitalità ai forestieri (cf. Mt 25, 35-36; Mc 6, 35-37 ; Mc 5, 35-36 ; Lc 10, 35).
Questo indirizzo evangelico è certamente rivoluzionario e, preso alla lettera, fa certamente “drizzare i capelli” agli economisti del nostro tempo alle dure prese con la congiuntura internazionale e con una visione alquanto totalizzante del profitto a tutti i costi. Sta di fatto che il tema in questione, quello sui criteri evangelici circa l’uso del denaro per la missione, è scottante e nei secoli di storia ecclesiastica è stato affrontato con modalità diverse al punto che si sono delineate due principali correnti pensiero. La prima pressoché incline al pauperismo, nell’accezione naturalmente più nobile e virtuosa da attribuire a questo termine. Una radicalità, impressa nel passato soprattutto dagli ordini mendicanti e oggi manifestata da alcune comunità, che vede i pericoli di un uso acritico del denaro e sente l’urgenza di farlo entrare nello spazio della povertà evangelica, anche rinunciando ad una certa efficienza tipica della post-modernità.
Un altro orientamento, di matrice fortemente occidentale ed efficientista, ricorre invece senza indugio a notevoli risorse finanziarie per realizzare opere/progetti inerenti direttamente o indirettamente con l’evangelizzazione. In questo caso si fa sempre riferimento alla purezza dell’intenzione, evitando di principio quesiti intriganti sull’uso del denaro, sulla visibilità della povertà, sulla possibilità dell’inculturazione del Vangelo attraverso mezzi ricchi. Ambedue gli orientamenti mirano alla promozione dell’ad gentes ma sono radicalmente diversi anche se poi, soprattutto nell’ambito di alcuni istituti missionari, ci si rende conto che l’evangelizzazione nel Terzo Millennio non può rinunciare né ad una certa efficacia (standard d’eccellenza determinati dal progresso tecnologico, per esempio nell’ambito della comunicazione digitale) che impone il ricorso al denaro, né alla povertà evangelica che ne esige un uso sobrio e solidale.
E allora? Certamente vi è la necessità di operare un sano discernimento, pur nella consapevolezza che sull’uso evangelico del denaro nessuno pare abbia oggi risposte chiare ed esaurienti rispetto ai sempre nuovi e gravi interrogativi determinati dalla globalizzazione dei mercati. Ma cosa significa concretamente fare discernimento? Com’è noto, il Concilio Vaticano ii nella Gaudium et Spes afferma a chiare lettere che «è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo» (3.4). È ovvio che tale «scrutatio» ha una forte valenza comunitaria, e pertanto deve coinvolgere tutte le parti in gioco.
Pertanto, è fondamentale l’identificazione di alcuni criteri evangelici, indispensabili in fase di discernimento sia per le nostre comunità cristiane come anche per le congregazioni missionarie e ad altri enti religiosi. Anzitutto, l’orizzonte deve essere il Regno di Dio. Si tratta di un messaggio che Cristo ha annunciato e testimoniato incentrato fondamentalmente sul primato assoluto di Dio, sulla fiducia filiale nella sua Provvidenza, sull’amore fraterno e il perdono, sull’amore preferenziale dei poveri, sulla prospettiva escatologica, sulla pace, la giustizia e la riconciliazione. Da questo punto di vista, le scelte non devono mai scendere, in linea di principio con l’Anti-Regno (commerci illeciti, denaro sporco, speculazioni di borsa, banche armate…). Inoltre, le scelte devono essere ecclesiali in quanto la comunità dei credenti è inviata a continuare con lo Spirito l’opera del Cristo; una prospettive questa che esige un’autentica comunione d’intenti; infatti è sempre in agguato la cosiddetta autoreferenzialità che oggi contraddistingue molti interventi solidaristici. Come scrivevano negli anni ‘80 i vescovi italiani: «La missione non è opera di navigatori solitari: la comunione è la prima forma della missione» (cfr. Comunione e Comunità Missionaria, 1986). Non v’è dubbio, poi, che il mistero della predilezione di Gesù per i poveri e la loro centralità nei dinamismi del Regno e della missione, suggerisce, ad ogni Chiesa, nel Nord come nel Sud del mondo — anche alla luce dell’illuminato magistero di Papa Francesco — di condividere la vita dei poveri, usando il denaro per una solidarietà efficace e rispettosa della loro dignità, evitando la dipendenza economica. Le forme concrete di tale solidarietà andranno ripensate a partire dalle nuove situazioni economiche e politiche con le quali il Regno di Dio dovrà misurarsi e, se necessario, scontrarsi anche subendo, come Gesù, persecuzione e morte.
Una cosa è certa: una parte rilevante del denaro per l’evangelizzazione raccolto in Italia e destinato alle Chiese africane è offerto dai fedeli delle nostre parrocchie, di estrazione economica medio-bassa, con uno spirito evangelico incentrato spesso sulla rinuncia, sul nascondimento e la fedeltà nel tempo verso i poveri. È dunque sempre opportuno promuovere una sana pedagogia, mettendo in discussione il proprio stile di vita e ribadendo il principio dell’eticità delle proprie azioni, per esempio degli investimenti bancari. Allo stesso modo, il denaro generato dal commercio di armi o dallo sfruttamento del lavoro minorile o dalla distruzione dell’ambiente è in netta contraddizione con i dettami della solidarietà. Il continente africano e in esso le Chiese locali, da questo punto di vista, hanno bisogno di un forte sostegno essendo in prima linea nel contrastare le diseguaglianze prodotte dal cosiddetto «nuovo disordine globale»: guerre, speculazioni, land grabbing… I singoli missionari, laici, sacerdoti, vescovi ed enti religiosi sanno bene che il denaro rappresenta per la missione un rischio e una opportunità: vivendo con coraggio una vita povera nella sequela di Gesù, potranno meglio garantire alla missione quei mezzi che la rendano efficace senza sottrarla allo spazio della povertà evangelica, indispensabile anche per l’inculturazione del Vangelo.
Questi criteri sono inevitabilmente ancora generali. Toccherà perciò ad ogni Chiesa locale, comunità cristiana, istituto missionario, organismo ecclesiale, lasciarsi guidare da essi in un discernimento comunitario che oggi s’impone più che mai. Solo così sarà possibile avere luce per individuare, di situazione in situazione, scelte sempre più evangeliche, capaci di rendere testimonianza. Un pastore illuminato come Paolo vi sosteneva che la Chiesa non solo dev’essere povera , ma «deve apparire povera» (Udienza generale, 24 giu 1970). E qui, inutile nasconderselo, come fa intendere anche Papa Francesco, c’è ancora molta strada da fare.
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