Per trent’anni si è parlato di globalizzazione come di una tendenza lineare che avrebbe dovuto produrre un’integrazione planetaria basata su commercio e tecnologie.
E, in un certo senso, il mondo si è mosso in questa direzione. Oggi siamo infatti molto più “globalizzati”: l’interdipendenza (economica, ambientale, energetica, migratoria, finanziaria) costituisce un dato di fatto da cui è impossibile prescindere. Non c’è questione locale che non abbia riflessi sul piano globale. E viceversa: le grandi sfide che riguardano il globo impattano – anche se in modi e intensità diversi – su ogni località. Non è più possibile separare i destini degli uni da quelli degli altri.
Il problema è che non abbiamo né la cultura né le istituzioni per governare un mondo diventato globale. E perciò infinitamente più complesso.
In questo momento le linee di conflitto si moltiplicano: quella tra Russia e Stati Uniti, il cui teatro è l’Ucraina e, potenzialmente, l’intera Europa dell’Est; quella tra Cina e America, lungo un cono d’ombra che, partendo da Taiwan investe l’intero Sudest asiatico; quella tra Israele e Hamas che investe l’intero mondo arabo, attraversato da profonde tensioni interne. Senza contare i conflitti ormai cronicizzati come quello nello Yemen, in Siria, Sudan, Congo. Il rischio è di ritrovarci in una sorta di guerra civile globale. Con il tabù dell’arma nucleare come unico vero limite all’escalation che tutti temono. Quasi che il mondo stesse ballando sul bordo del precipizio, in una sorta di gioco macabro di cui nessuno conosce l’epilogo.
Ci troviamo in una situazione storica inedita rispetto alla quale anche le basi del pensiero politico moderno si rivelano inadeguate. Machiavelli ha sdoganato una politica orientata al risultato. Il “buon politico”, secondo il pensatore fiorentino, è quello che, usando i mezzi più efficaci, porta a casa il fine desiderato. Senza curarsi dell’etica. Ma nel mondo ipercomplesso tale visione lineare – che pensava a una correlazione precisa tra il mezzo usato e il fine da raggiungere – è sempre più una chimera. Il presidente russo Putin, ad esempio, si ritrova in una situazione ben diversa da quella che aveva immaginato. Il presidente americano Biden fatica a definire una linea politica in una situazione che scappa continuamente di mano. Il premier israeliano Netanyahu – ma anche l’Iran degli ayatollah – si muove reattivamente. In questo momento non c’è nessuno in grado di dire con certezza cosa fare per raggiungere un determinato risultato politico. Sono troppe le variabili e le dimensioni in gioco.
Anche il Leviatano di Thomas Hobbes – figura dello Stato che, acquisendo il monopolio legittimo della violenza, scongiura il rischio della guerra civile – è una via indisponibile. Uno Stato mondiale capace di mettere il freno ai tanti disegni di potenza che scuotono il mondo non è né pensabile né auspicabile. In questa situazione, come evitare che a trionfare sia Behemoth, il mostro del caos?
Ci vuole un altro modo di guardare le cose. Ma la politica pare non capire veramente il salto che è stato compiuto con la globalizzazione e con l’interdipendenza planetaria che essa lascia in eredità. I prossimi anni dovranno essere dedicati a pensare e realizzare forme politiche e istituzionali adeguate alla nuova situazione nella quale ci troviamo.
Ci si domanda quale possa essere il ruolo dell’Europa, territorialmente e demograficamente sempre meno rilevante, in questo gioco planetario. Mario Draghi ha ribadito che l’Unione non può essere la somma di Stati nazionali portatori di interessi particolari e che occorrono riforme radicali. Ma oltre al tema della competitività su cui si è concentrato l’ex premier italiano, l’Europa è chiamata a rispondere ad altre due sfide storiche.
La prima è risolvere su scala continentale la questione che ritroviamo a livello globale: come armonizzare sovranità distinte ma sempre più legate? Se non si tratta di costituire un “superstato”, quale nuovo modello di sovranità multilivello siamo capaci di inventare? È evidente, infatti, che se non ci riusciamo in Europa, tanto meno ci riusciremo a livello planetario.
La seconda è rimanere fedele alla sua origine, più che mai attuale. Per anni si è ripetuto che il progetto europeo è nato nel segno della pace, allo scopo di evitare il ripetersi dell’esperienza drammatica della Seconda guerra mondiale. Lontana da una logica imperiale, l’Unione ha come metodo il dialogo e la cooperazione. Che non sono parole vuote, ma cultura e pratiche istituzionali che, per quanto difficili da perseguire, hanno garantito 70 anni di pace. Un’esperienza ricca di significato e profetica, in un momento dove esplodono le polarizzazioni.
Il mondo che verrà sarà meno eurocentrico. Per non scomparire, l’Europa deve avere il coraggio di scommettere sugli elementi più preziosi della sua storia. Il Vecchio Continente ha ancora energie spirituali per essere parte costituente del mondo nuovo?
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