Quanto costa farsi eleggere? Sudore, fatica, impegno… D’accordo, d’accordo. Ma la domanda è diversa: quanto costa farsi eleggere? Quanto denaro per ottenere un seggio in parlamento? Quanto per diventare sindaco? E per il parlamento europeo, invece, quali sono le tariffe? E per il senato? Bisogna chiederlo a chi possiede il listino prezzi, e quindi si fa presto: le organizzazioni criminali. Sono loro che forniscono la rampa di lancio, il combustibile, l’expertise.
Cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra, società foggiana, dispensano il kit del perfetto sindaco, del perfetto senatore, e lo fanno, se possibile, in maniera green: riciclando per la gran parte elettori le cui preferenze sarebbero destinate all’oblio. Lo fanno con la raccolta porta a porta, suonano ai citofoni, titillano i campanelli. Raccolgono i voti di scarto e li infilano nelle urne uno a uno. Con pazienza e metodo donano loro una nuova vita. Lo fanno dov’è meno complicato. La logica è quella d’impresa, occorre razionalizzare i costi e massimizzare il guadagno.
Durante la pandemia di Covid, la camorra è riuscita a strappare consenso grazie alle enormi lacune nell’assistenza ai cittadini. Spesa alimentare, medicinali, spostamenti garantiti da un luogo a un altro. In Piemonte, come l’inchiesta Echidna ha rivelato, la ‘ndrangheta controllava pacchetti di voti frutto del lavoro nell’edilizia. Il calcolo è preciso. Anche quello economico. Un seggio in parlamento? 50 mila euro. Una spesa importante, è chiaro. Ma non folle. Sicuramente alla portata di chi ha messo da parte qualche risparmio, possiede magari un’attività, un patrimonio familiare anche modesto. O di chi ha la potenza necessaria per chiamare a sé un po’ di investitori. Un po’ di sponsor.
Nel 2021 Lady Camorra, Maria Licciardi, sostenne un candidato alle regionali e diede corpo all’operazione mettendo in gioco un capitale finanziario: 50 euro per chi lo vota. Il suo candidato ottenne 2.100 preferenze e per un soffio non riuscì a essere eletto. Lady Camorra chiamò all’istante il referente della famiglia Mallardo — clan egemone di Giugliano di Napoli — il quale, dopo aver condotto un’accurata analisi, da vero esperto, dichiarò che il candidato si era mosso troppo tardi e quindi gli elettori erano stati già acquistati da altri candidati. Le risorse scarseggiavano. I competitor avevano già provveduto a depauperare la piazza. La domanda era superiore all’offerta.
Soprattutto in periferia, capita che l’intervento delle mafie sia risolutivo. Il voto d’opinione, quello che fa leva sulla condivisione degli ideali, è questione marginale. Il grosso dei voti che dall’ignavia dell’astensionismo acquisiscono vita marciando fino alla buca dell’urna, be’, quello è comprato. Va a tanto al chilo. E i risultati parlano chiaro. Le organizzazioni garantiscono.
Più i politici precipitano nel baratro del disprezzo, dello scetticismo, più la politica perde autorevolezza, più è facile che la compravendita dei voti attecchisca e che il costo di un singolo voto cali progressivamente. Sono cresciuto in una terra dove si vota il politico che disprezzi ma che in cambio ti concede qualcosa: diritti, sacrosanti diritti, tramutati in favori. Sono moltissimi i politici esperti nell’arte dello spiccia bancone. È così che lo chiamano. Li vedi seduti dietro una scrivania, in qualche ufficetto o magari in casa loro, con le pantofole ai piedi, stanno lì come dietro la cassa di un bar, e i clienti in fila ad attendere. La signora Maria non riesce a ottenere una prescrizione dal medico di base? Nessun problema, ci pensa l’onorevole. Il signor Giuseppe non riesce a far lavorare suo figlio nel cantiere che hanno aperto vicino casa? Tempo una settimana, l’onorevole porterà buone notizie. Un segno su un foglietto, zac, il nome del cliente e il suo bisogno particolare. I doveri elusi da qualcuno che diventano merce di scambio per qualcun altro.
Paolo Macry ha raccontato con i suoi studi il voto di scambio nel secondo dopoguerra: lì si trattava di cibo. Un voto una cesta di cibo. Con la crescita economica, come racconta Percy Alloum, si è trattato di un’assunzione, un voto un posto di lavoro.
Quando Antonio Gava divenne ministro delle Poste, tutti gli uffici postali d’Italia si riempirono di campani. Oggi, in un Paese dove dal 1991 al 2022 i salari sono cresciuti solo dell’1%, (a fronte di una media del 32,5% in area Ocse) un voto vale mediamente 50 euro. Esiste, è chiaro, anche un prezzo ufficiale, legale, stimato in maniera abbastanza precisa per l’allestimento di una campagna elettorale. 30 mila o 50 mila euro, come nel caso di Fratelli d’Italia o del Partito Democratico, per un seggio al parlamento o al senato (dati 2022). La Lega di Matteo Salvini chiese 20 mila euro per le candidature ritenute sicure alle scorse politiche. Il seggio al parlamento europeo è il più costoso: 200 mila euro.
Questi sono tariffari legali, sono le spese che i partiti chiedono di sostenere ai propri candidati per far arrivare il proprio programma agli elettori, incollare le proprie idee alle pareti, portarle alle cene, stamparle sui volantini. Ma queste spese non garantiscono l’elezione, è chiaro. Non come il denaro versato direttamente nella tasca dell’elettore scontento.
Gli ultimi eventi a Catania e Bari hanno riportato il voto di scambio al centro dell’attenzione. Sammartino, a Catania, era stato esponente dell’Udc, poi passato al Pd e successivamente confluito in Italia viva, prima di approdare alla Lega. Fra i politici più votati in Sicilia, è stato Sospeso perché emergerebbero dall’inchiesta dei carabinieri Pandora accordi tra amministratori del Comune di Tremestieri Etneo ed elementi vicini alla cosca mafiosa Santapaola-Ercolano.
A Bari, dopo lo scandalo che ha riguardato l’ex consigliera comunale Maria Carmen Lorusso — eletta, secondo l’accusa, grazie all’appoggio della criminalità —, quello sull’assessore regionale Anita Maurodinoia ha riacceso la polemica. Stavolta la mafia non c’entra, c’entrerebbero invece i favori, le corsie preferenziali, acquisti e compravendite.
Esiste anche un voto di scambio cosiddetto politico. Ma quello, perlomeno, è legale. E anche qui gli esempi si sprecano. Ce n’è per tutti i governi e di tutti i colori. Può mai accadere che le mafie votino anche chi non le paga o le favorisce direttamente? Certo. Votano in genere per politici che non hanno conoscenza delle loro dinamiche di profitto. Per gli utili idioti. Quando non hanno referenti diretti, preferiscono il candidato meno sveglio e meno preparato. Quello che non ha le competenze per esercitare il dovuto controllo sugli appalti. Non si governa senza le mafie e chi ci prova è sempre a rischio dei loro ricatti.
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