L’avvicinarsi del 25 aprile riaccende i paralleli tra la nostra Liberazione e quella degli altri. È infatti prevedibile che nei cortei risuonerà lo slogan «Palestina libera», e si inneggerà alla «resistenza» di quel popolo. Ma si può star sicuri che analogo interesse non susciterà la resistenza degli ucraini. Secondo un paradosso ben sperimentato nel nostro dibattito pubblico: per cui proprio coloro che sono più impegnati a contestare l’occupante israeliano, sono anche i più comprensivi delle ragioni dell’occupante russo. Nonostante Gaza non fosse affatto occupata prima che scoppiasse la guerra, mentre il Donbass lo era e lo è.
Questo strabismo etico e politico è interessante anche nelle sue motivazioni. L’altro giorno in radio c’era un’ascoltatrice davvero indignata con il governo ucraino: «Ciò che trovo intollerabile — diceva — è l’assoluto disprezzo della vita umana di chi manda due soldati a combattere contro duemila». Di solito parteggiamo per il più debole. Nel caso della Russia, invece, la sua forza militare e demografica, ritenuta soverchiante, è fin dall’inizio considerata un’ottima ragione perché l’abbia vinta. Dunque: ci indigniamo in nome della sacralità della vita contro i due che resistono, ma non contro i duemila che provano ad ammazzarli.
A parte il fatto che nella storia il più grosso tante volte le ha prese (la Russia zarista, rullo compressore dell’Europa, fu per esempio la prima potenza ad essere sconfitta da un Paese asiatico, il piccolo Giappone, nel 1905). Ma ciò che davvero colpisce è che un tale ragionamento nega in radice il diritto alla resistenza del più debole, che è invece giustificato proprio dall’inferiorità numerica o militare di chi subisce un torto o un’ingiustizia. Non so se i fautori di questa tesi si rendano conto che così finiscono per rinnegare modelli di eroismo come quello dei trecento spartani che alle Termopili difesero la libertà dei greci di fronte all’immensa forza militare persiana; o quello dei vietcong che sul sentiero di Ho Chi Minh alla fine sconfissero il gigante americano; e perfino la disperata resistenza degli indiani d’America che, piuttosto di finire confinati in una riserva, preferirono battersi su un campo di battaglia.
Insomma: se il più debole non ha diritto a difendersi, l’intera storia dell’umanità va riscritta. D’altra parte, sono sicuro che quella stessa ascoltatrice non avrebbe mai usato lo stesso argomento per condannare le azioni dei partigiani italiani tra il 1943 e il 1945, magari ripetendo l’antica accusa di essersi così resi responsabili, con la loro lotta, delle orribili rappresaglie nazifasciste di Marzabotto o di Sant’Anna di Stazzema. E d’altra parte quelli che la pensano come lei non chiedono certo ad Hamas di smetterla di combattere per evitare il massacro di altre migliaia di civili palestinesi. Eppure anche Hamas, alzando la famosa bandiera bianca, avrebbe il potere di mettere fine alla guerra, rinunciando a fronteggiare un avversario chiaramente più forte per capacità militare e tecnologica. Eppure la responsabilità di Hamas, il massacro di israeliani del 7 ottobre, non è neanche lontanamente paragonabile a qualsiasi «casus belli» possa essere imputato da Mosca a Kiev per giustificare l’invasione.
Proprio la vicenda del conflitto arabo-israeliano, iniziato 76 anni fa, dovrebbe invece insegnare che la pace non è una vittoria militare, che non basta un’annessione di territori o la resa del nemico per garantirla. Nel 1948, quando l’Onu decise la nascita di due Stati in Palestina, i più deboli erano gli ebrei, poche centinaia di migliaia circondati da un mare di milioni e milioni di arabi in Egitto, Giordania, Siria, Libano, Iraq; i quali commisero l’errore di rifiutare il piano di partizione convinti di poter prevalere con la forza, e aprirono così uno dei conflitti oggi più lontani da ogni speranza di pace. Allo stesso modo, se domani mattina un governo ucraino decidesse all’improvviso di arrendersi a Putin, non sarebbe la fine della guerra, ma l’inizio di una nuova e strisciante e infinita guerra, forse anche di una stagione di terrorismo internazionale; proprio come avvenne in Medio Oriente, quando i palestinesi di Arafat lo abbracciarono come arma di resistenza.
I russi dovrebbero ben saperlo, avendone già fatto esperienza in Afghanistan: invasero anche quel Paese, ma se ne dovettero ritirare dopo dieci anni, lasciando aperta la ferita dell’estremismo islamista da cui è poi germinato l’attacco all’America di Bin Laden, la risposta di Bush jr, la guerra dell’Iraq, e l’infinità di focolai e attentati che ancora oggi insanguinano il mondo.
«Non c’è pace senza giustizia». Lo ha detto anche Giovanni Paolo II. Aggiungendo: «Non c’è giustizia senza perdono». Chi si appresta a sporcare il ricordo della nostra lotta di Liberazione per giustificare l’oppressione altrui, o per fare due pesi e due misure a seconda dell’invasore, provi a ricordare queste parole il 25 aprile.
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