“Ecco come personalmente vedo l’esperienza: “l’impronta” che Dio lascia nel fondo del cuore, quando passa nella nostra vita”. A scrivere questa nota è Mariano Magrassi (1930-2004) nel suo testo “Afferrati da Cristo”, testo del 1978 in cui riportava l’esperienza degli esercizi spirituali predicati a Paolo VI e alla curia romana. Collegare l’idea dell’impronta a chi non c’è più potrebbe essere un modo per sfuggire, a vent’anni dalla sua morte, a ricordi retorici o nostalgici di un pastore che ha tanto dato alla Chiesa di Bari e a quella italiana.
L’impronta di padre Mariano ha diverse sfaccettature. Provo a coglierne qualcuna (aiutato anche da tanti ricordi personali). Prima di tutto la coscienza piena della “misura di sé”, detta anche umiltà. Mi ha sempre sorpreso il modo in cui si poneva in ascolto, dopo aver fatto alcune domande, a chi lui riteneva un esperto o un maestro o, comunque, qualcuno che ne sapesse più di lui su una determinata materia. Proteso all’ascolto ma anche desideroso di imparare, accompagnava l’incontro con il prendere appunti su quanto stava ascoltando. Credo che dipendesse anche da questa “misura di sé” il concepire il suo ruolo di vescovo come colui che non ha “l’insieme dei carismi, ma il carisma dell’insieme” (Vivere la Chiesa), alla stregua del direttore d’orchestra che non sa (e non può!) suonare tutti gli strumenti, ma coordina, armonizza e aiuta tutti gli strumenti a eseguire la propria parte. E a pensarci bene, ciò non vale solo per il vescovo ma per ogni leader: chi comanda non possiede l’insieme delle capacità e competenze – cosa, tra l’altro, umanamente impossibile – ma la capacità di armonizzare quelle presenti nell’istituzione coinvolta. Il vero capo – scriveva Mounier – “crea, sviluppa, amplifica”. E Magrassi lo è stato, finanche quando riconosceva pubblicamente i suoi limiti ed errori nel governare. In una vicenda tumultuosa di una parrocchia, davanti al Consiglio Pastorale, ammise che “non tutte le ciambelle riescono con il buco e questo vale anche per il vescovo”.
Magrassi, specie in Italia, è ricordato per la sua impronta liturgica. Non si tratta di un’attenzione alla liturgia fine a se stessa, quasi un estetismo liturgico arido e sterile. Tutt’altro. “Il Vaticano II – ripeteva spesso il Nostro padre Mariano – è come il treno che cammina su due binari, che, nel caso, sono: la riforma ecclesiale e quella liturgica. Se si toglie un binario il treno deraglia”. Quindi credo sia opportuno leggere il suo impegno nel rinnovamento liturgico in sinossi con le sue lettere pastorali, tese a un profondo rinnovamento ecclesiale. Ricordo in particolare i testi sull’evangelizzazione e la catechesi come impegno profondo, sull’iniziazione cristiana, sull’evangelizzazione degli adulti.
Infine, credo sia degna di nota la sua impronta sociale. La sua attenzione sociale – testimoniata anche dal volume Per una società equa e solidale. Messaggi sociali, 1997 – si incentrò su temi quali l’ambiente, l’usura, la criminalità, l’emarginazione, la discriminazione, la pace (insieme al suo amico Tonino Bello) i gravi problemi di Barivecchia e del Quartiere San Paolo, la sanità, la scuola, il lavoro e la disoccupazione giovanile, l’immigrazione albanese. Le sue riflessioni e il suo impegno per gli ultimi sono un’ulteriore testimonianza di un monachesimo che non significa abbandono del mondo o disinteresse per esso, ma riscoperta di esso alla luce della fede. In questa linea Magrassi ha ripercorso il solco di grandi monaci – per esempio Giuseppe Dossetti, per citarne uno tra i tanti – che hanno pensato lo spazio della città e il suo impegno in essa in stretta relazione con la fede e la spiritualità. E’ la coscienza, come monaco e pastore, di portare un contributo alla crisi sociale e politica, come affermò Dossetti quando, nel 1994, “ritornò” nel mondo per difendere la Costituzione, attaccata dall’onda nascente del berlusconismo: “Dobbiamo ora porci come obiettivo urgente e categorico di formare le coscienze dei cristiani (almeno di quelli che vorrebbero essere consapevoli e coerenti) per edificare in loro un uomo interiore compiuto anche quanto all’etica pubblica, nelle dimensioni della veracità, della lealtà, della fortezza e della giustizia (quanto ancora c’è da fare soprattutto per l’eticità tributaria, oltre le facili giustificazioni forse talvolta ovvie, ma sempre non consentite al cristiano )”. Magrassi ha seguito questa linea.
Queste tre impronte, e diverse altre qui non trattate, fanno pensare che i tempi siano maturi – a mio modesto avviso – per avviare una doverosa ricerca ecclesiale per verificare se la testimonianza di padre Mariano sia degna di essere riconosciuta come esempio di santità da proporre al popolo di Dio. Intanto quanto ha scritto e insegnato ci consola e ci aiuta a crescere nella fede, seguendo quel bel testo in cui afferma: “Bisogna raccogliere la vita, con tutte le cose vive di cui è popolata, intorno a un centro, e il centro può essere uno solo: Gesù Cristo. Ma un Cristo vivo, che diventa il mio tutto e per il quale gioco la vita. Qualcuno che dà senso alla mia vita, tutto il suo senso, e al cui servizio metto tutte le mie energie. […] “Per me vivere è Cristo” (Fil 1,21) (Vivere la Chiesa).
Rocco D’Ambrosio
[presbitero, docente di filosofia politica, Pontificia Università Gregoriana, Roma; presidente di Cercasi un fine APS]