Quello che le donne (non) dicono, di Anita Prati

Lo chiamiamo «immaginario collettivo»: è un animale strano, fatto di sogni, fantasie, racconti, miti, canzoni, che ci abitano, ci plasmano e ci governano, senza che, tante volte, neanche ce ne rendiamo conto.
Come fu che Lara divenne Tacita Muta
Lara era una ninfa dell’acqua, figlia del fiume Almone, un affluente del Tevere. Garrula per natura, come ogni elemento che abbia a che fare con l’acqua, già nel nome esprimeva la sua indole vivace e chiacchierina: alla radice di «Lara» c’è il verbo greco laleo, che indica non il parlare serio e autorevole degli uomini di parola, ma il parlare inconsistente delle donne, la chiacchiera leggera e fuori luogo, il parlare a sproposito, lo sparlare.
Almone, ben sapendo che le parole femminili non sono che ciance vane e senza costrutto, continuamente redarguiva la figlia: Nata, tene linguam! Figlia, frena la lingua! Stai zitta!
Stai zitta! Ce l’ha ricordato più volte Michela Murgia, quanto questo perentorio imperativo sia stato usato e continui ad essere usato per domare le donne, per trasformarle da creature parlanti e pensanti a esseri obbedienti e accondiscendenti.
Ma Lara non stava zitta. Era una ninfa e aveva tante sorelle. Giove s’era incapricciato di una di queste, Giuturna, e voleva farle violenza. Lara, senza esitare, mise sull’avviso la sorella; Giove, infuriato per il piano andato in fumo, strappò la lingua a Lara e la zittì per sempre, trasformandola, da quel momento, nella dea del silenzio, Tacita Muta.
Ben ti sta! È questa la lezione che si ricava dal racconto dei Fasti di Ovidio. Anziché presentarla come l’eroina che salva la sorella dalla brutalità dello stupro maschile, dimostrando coraggio e spirito di sorellanza, Ovidio fa di Lara il prototipo negativo dell’imperdonabile impudenza femminile che, con le sue parole, osa contrapporsi alla potenza del maschio.
Nel racconto di Ovidio, esemplare non è la parola di Lara, ma la sua punizione. La parola è tolta, il silenzio è imposto. Lara sottomessa, divenuta Tacita Muta, è proposta come esempio per tutte le donne, per le quali tacere dev’essere non solo una virtù, ma anche un dovere: la donna esemplare è donna di poche o, meglio, nessuna parola.
Consapevolezze
Il mito costruisce immaginari e diventa immaginario collettivo. Il monito del tene linguam attraversa i secoli. Non è difficile riconoscerne gli effetti di lunga durata: la musa silente, accondiscendente, riservata, modesta, passiva e remissiva, è il modello performativo che ha plasmato generazioni e generazioni di donne. Il silenzio delle donne, funzionale al predominio maschile, ne è stato l’irrinunciabile conferma.
Era il 1987 quando, dal palco di Sanremo, Fiorella Mannoia cantava Quello che le donne non dicono, una canzone in cui tante donne, ritrovandovi la trama sottesa alla loro stessa vita, si sono potute riconoscere: giornate amare e senza fine, notti bianche, familiarità di lunghe attese e di silenzi, quotidiani esercizi di autocontrollo per nascondere il dolore, per non andare via, per trovare la forza e le ragioni per continuare a dire un altro «sì», senza darsi mai la possibilità di confessarsi stanche, cercando sempre dentro di sé nuove risorse per trasformarsi e poter piacere a chi c’è già o potrà arrivare a stare con noi.
Può essere interessante servirsi del palcoscenico nazionalpopolare di Sanremo come di un osservatorio privilegiato per monitorare il diffondersi e il consolidarsi, a livello di cultura popolare, del processo di radicale sovvertimento degli stereotipi che hanno sostanziato, attraverso i secoli, il pensiero sul femminile. Stereotipi non solo subiti, ma anche accettati, confermati, fatti propri, intronizzati e tramandati dalle stesse donne. A distanza di neanche quarant’anni da quell’ormai lontano 1987, lo scorso febbraio, la stessa interprete, questa volta anche coautrice del testo, ha proposto dallo stesso palco dell’Ariston una canzone che racconta tutta un’altra storia rispetto a Quello che le donne non dicono.
Lo scarto dirompente – uno iato rumoroso – fra le parole non osate e non dette della canzone del 1987 e le parole fiere e orgogliose di Mariposa è emblematico nel testimoniare una lampante discontinuità nell’autopercezione e nell’autorappresentazione femminile.
La donna di Mariposa canta orgogliosa la propria identità, individuale, molteplice e corale; canta la libertà di essere strega e farfalla, fiamma e regina, madre, figlia, luna nuova, l’infinita varietà e variabilità del reale femminile contro la semplificazione mistificatrice dell’«eterno femminino»; canta la gioia della parola che si fa grido e canto nel silenzio e si perde nell’universo.
La donna di Mariposa non è più la donna di Quello che le donne non dicono, lusingata dai complimenti del playboy lanciati da un’auto in corsa. È una donna che, in ogni situazione, sa riconoscere lo sguardo maschile che oggettivizza il corpo delle donne; una donna che chiama molestie quei «complimenti» e li giudica per quello che realmente sono – uno dei tanti modi a disposizione dei maschi per stabilire e confermare la propria posizione di potere.
Due canzoni, due mondi. Nel mezzo, una sicura presa di coscienza delle donne rispetto alla propria identità e alla propria capacità di parola. Sorella, amica mia, io ti do la mia parola. Mariposa canta l’orgoglio di essere donne di cui ci si può fidare, capaci di dare la vita e la parola per le proprie sorelle e riscatta Lara che difende Giuturna dalla prepotenza del maschio, sia pure un dio, che la vuole violentare.
Cento parole: una postilla distopica
Una canzone come Mariposa sembra rassicurarci rispetto ai passi compiuti. Ma, possiamo davvero sentirci al sicuro?
Nel recente romanzo distopico Vox, della statunitense Christina Dalcher, ambientato in un’America dai contorni cronologici indefiniti, la protagonista, Jean McClellan, una donna intelligente, colta, professionalmente ben posizionata, madre di tre figli, si trova da un giorno all’altro a dover fare i conti con una realtà impensabile: il nuovo governo, presieduto dal Movimento per la Purezza, ha stabilito che le donne non possono pronunciare più di cento parole al giorno. Un braccialetto magnetico al polso conteggia le parole pronunciate e fa scattare una scossa quando il limite viene raggiunto. Opporsi e protestare può significare la morte. Riusciranno le donne a ribellarsi?
Ho affidato a cento parole, non una di più, il racconto della trama di Vox. Voglio chiudere così, lasciando tante altre parole sospese a fili di pensieri silenziosi.
Ci sono ancora troppi buoni motivi nel mondo per celebrare la giornata internazionale della donna.

www.settimananews.it/societa/quello-le-donne-dicono/

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