Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria. Anche lo Stato-nazione?, di Riccardo Cristiano

C’è una frase famosa di Karl Marx che sembra proprio parlare del mondo d’oggi: “Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”. Molti possono interpretarla in molti modi diversi; i più eruditi -considerandone il contesto- la sanno legata alle continue trasformazioni dell’economia capitalista. Ma, se si discute di una possibile crisi della democrazia negli Stati Uniti, allora vuol dire che davvero siamo in una fase di passaggio verso qualcosa di diverso da ciò che conosciamo e riteniamo consolidato e quindi potrebbe essere necessario riflettere su quanto disse Marx: “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”, non solo pensando alla modernità liquida di Zygmunt Bauman o, in modo più appropriato, all’idea hegeliana delle possibili degenerazioni del principio moderno. Forse bisogna stare al pensiero e all’oggi. E così immaginare che ci dica che anche lo Stato vestfaliano, il famoso Stato-nazione, possa prima o poi dissolversi nell’aria.
Dal 1648, da quando cioè fu firmata la pace di Vestfalia, l’ordine mondiale non si fonda più su imperi, dinastie o confessioni, ma sullo Stato-nazione. Sembra, e soprattutto nella cultura francese è stato affermato da molti, un qualcosa di “naturale”, eterno. Ma per me non è così. La Stato-nazione esiste da allora, dalla pace di Vestfalia, dal 1648 e come è nato può morire, o dissolversi in qualche modo nell’aria. Il punto è come.
Nella nostra epoca d’oro, quella successiva alla Seconda Guerra Mondiale, in Europa si è sperato di poter “progredire”, imboccare cioè una strada che senza abbandonarlo, restando nel solco dello Stato-nazione, arrivasse alla comunità di popoli, basata sul bene comune. Questa idea, come è noto, si è sviluppata nel corso partendo da obiettivi limitati, come il carbone e l’acciaio, per poi arrivare al banco di prova cruciale, la difesa comune europea, fatto fallire dalla Francia nel 1954. La Politica europea comune di sicurezza e di difesa (PSDC) tentata con il trattato di Lisbona ne è stato un parziale e fallimentare tentativo di recupero, tanto che la NATO è rimasta una realtà senza alternative. Il fatto che proprio ora negli Stati Uniti si sia avvertita l’esigenza di impedire al prossimo presidente degli Stati Uniti di uscirne dimostra però che le certezze non sono più tali, altre realtà solide potrebbero dissolversi, altri mutamenti potrebbero soggiungere. La sfida di Putin non è il solo elemento che dovrebbe far riflettere sul futuro europeo. Il voto italiano contro il MES può essere inteso come un secondo stop sul cammino europeo dopo quello del no francese del 1954. La comunità di popoli come realtà in divenire torna ad allontanarsi. Interessante che lo faccia, per scelta del Paese più indebitato, sul Meccanismo Europeo di Stabilità.
Ma l’idea che lo stato vestfaliano, lo Stato nazione, riesca a restare l’architrave di un sistema non in progresso, ma in regresso hobbesiano, come dimostrerebbe la diffusione dei conflitti, arma suprema degli Stati nazione nell’ordine hobbesiano, è sfidata da fatti evidenti. Basti considerare che ci sono aziende identificabili con una persona che hanno bilanci superiori a quelli di Stati medio-grandi. Queste aziende globali influiscono sulla cultura e la comunicazione oltre che sull’economia, visto che spesso afferiscono al mondo dei new-media, come Facebook o X. La sovranità assoluta degli Stati barcolla davanti a giganti che producono nuovi stile di vita li travalicano e che possono essere più potenti di loro. Che strade si indica?
Nell’immaginare l’ordine post-vestfaliano diviene stranamente molto importante l’esempio di un paese quasi sparito. Si tratta del Libano, che dall’ottobre del 2022 non ha un Presidente della Repubblica in carica per elezione parlamentare e quindi non ha neanche un governo nella pienezza delle sue funzioni, ma solo per il disbrigo degli affari correnti. Di tutto questo il Paese ormai non soffre più, non perché goda di buona salute ma perché ci si è abituato. Si è abituato anche all’abolizione di fatto di una moneta nazionale, sostituita dalla dollarizzazione dell’economia. Siccome è praticamente in guerra, si è fatto uno strappo per prorogare di un anno il capo dell’esercito. Poi si vedrà. Le negoziazioni tornano a livello comunitario, tribale o confessionale, cambia poco; sono comunque con altri poteri, leciti o illeciti, nazionali o sovranazionali o stranieri. Paese che si pone a cavallo tra sistema tribale e sistema occidentale, il Libano sta sperimentando un ordine post vestfaliano? Ci sarà un domani un Presidente eletto? O ci sta chiedendo a chi e a cosa servirebbe?
Incapace di pensarsi davvero come una comunità, il Libano conserva alcune libertà per la debolezza dello Stato, non per la sua forza. E’ la debolezza dello Stato che rende ancora libera la stampa, è la debolezza dello Stato che rende libera l’economia. Le intelligence qui giocano un ruolo cruciale, come i network del crimine internazionale, per la particolare importanza geopolitica del Libano nello scacchiere mediorientale, a conferma dell’inutilità dello Stato.
Questo modello potrebbe essere inteso come una forma pionieristica del futuro rapporto tra locale e globale nell’ordine post vestfaliano. Servono gli Stati-nazione? Il vero, nuovo locale, clanico, o confessionale se questo servisse a identificarsi e connettersi, può entrare nel nuovo sistema globale delle grandi Corporation e dei grandi poteri, anche quelli illegali, illegittimi o criminali, attraverso una rete di negoziazioni dirette o indirette, soprattutto tramite intermediari.
Questa incapacità, animata soprattutto dal nazionalismo prima e dal populismo ora, mette nei fatti in crisi il concetto stesso di popolo. I populismi infatti spaccano i popoli al loro interno, i loro leader infatti difenderebbero il popolo rendendo dannoso il pluralismo – per i populisti il popolo è uno e uno ne deve essere il leader che ne è la voce- ma soprattutto contro le elites che con i loro clienti o sodali sarebbero contro il popolo, con i globalisti, amici degli “invasori stranieri”. La battaglia del MES, per quel che ne abbiamo capito, serviva a difendere la sovranità, l’intangibilità dello Stato nazione sovrano, che però quando ha avuto bisogno di prestiti si è indebitato con altri, e dopo il Covid ha chiesto e ottenuti oltre a prestiti anche doni altrui.
Questa visione non è propria di popoli, ma di clan, o tribù, perché perde l’orizzonte globale, universale, quale la famiglia umana alla quale apparterrebbero tutti i popoli. La contrarietà alla stessa idea di “comunità di popoli”, riportandoci all’inizio del cammino a una lettura hobbesiana dello stato nazionale, può naturalmente indebolire le istanze sovranazionali e così – per scelta o necessità- favorire i localismi comunitari, clanici, tribali, visto che i popoli non hanno più una storia da raccontare. Perché un cittadino dell’affluente nord d’Italia deve pagare per garantire i servizi sociali al Sud? Perché uno stipendio a Milano deve essere uguale a quella che si percepisce nella assai meno costosa Palermo?
Il nuovo contesto aiuta a limitare i confini, facendoli etnici, clanici. Ma a differenza dei popoli le tribù hanno un capo, un collante etnico, spesso (non sempre) religioso. Il popolo no, visto che già per Cicerone è una riunione di gente associata che ha per fondamento l’osservanza della giustizia e la comunanza degli interessi. “Riunione” è la parola decisiva: il popolo è una “riunione”, non un gruppo, e per questo è stato molto avvertito e condiviso la sforzo per creare “l’ unione di popoli”. Uno sforzo che sta svanendo.
Se il discorso politico terrà conto dei gruppi, i nuovi soggetti chiederebbero agli Stati di tradire l’idea di popolo-riunione per tornare alle antiche tribù: ci si arroccherebbe con più logicità nella chiusura, nel territorio, nei dialetti più che nelle lingue nazionali, nei particolarismi più che nella creazione del racconto storico e nella ricerca della giustizia. Il populismo dunque è contro il popolo, che sempre si costruisce nella storia e in base al suo racconto di sé, e al suo innovarsi nel mondo che lo comprende e circonda.
Se i soggetti si chiudono nel loro passato, allora il loro domani più che nazionale sarà locale, ma pronto alla negoziazione con i poteri sovranazionali, politici, economici e/o criminali. In questo, Medio Oriente e America Latina potrebbero un vantaggio: conoscono la dimensione antica, locale, ma anche la Patria Grande, il panarabismo, una “patria” sovra-nazione tendenziale che dà una prospettiva di incontro. Quindi non si potrebbe escludere che la loro debolezza attuale possa dargli il vantaggio di una prospettiva, almeno ideale. Il famoso “Deep State”, una burocrazia sempre ritenuta, da chi così la definisce, autoreferente, potrebbe diluirsi in negoziatori nelle nuove negoziazioni e gli attuali Stati nazionali ridefinirsi sotto forma di deboli confederazioni sul modello della Svizzera.
I populismi sono la spia di un fallimento che si cerca di esorcizzare? Ci sarebbero infatti all’orizzonte altre e più riconoscibili “comunità di destino”. Di comunitario più che il destino c’è l’orizzonte e se si perde l’orizzonte globale dei diritti di cittadinanza, il destino diventa un fatto locale, chiuso, tribale, che nessuno può immaginare non possa negoziare con una globalizzazione privatizzata, irresponsabile, priva degli istituti della “famiglia umana” che non interpreterà più.
Se questa è una prospettiva, si potrebbe dire che la vera alternativa è quella che emerge dal sinodo della Chiesa cattolica, che restituisce un senso all’utopia della famiglia umana facendone la famiglia di appartenenza di tutte le espressioni territoriali articolate nelle famiglie nazionali e continentali. Il concetto di popolo torna ad essere un incontro che si rinnova e non si chiude nel localismo; la persona si inserisce nella comunità che si inserisce in un popolo in un progressivo addestramento a camminare con altri, con un proprio racconto di sé, fino a convergere nel grande cammino globale. Questo globale non può essere irresponsabile, privatizzato, perché espresso e creato da ognuno con gli altri, rispettando e convogliando verso una visione d’insieme, comune. Il sinodo a me sembra una prospettiva “cosmica”, cioè ordinata, nella quale gli ingranaggi dell’ordine si incontrano e danno senso al singolo e alla comunità. Nel meccanismo tribale invece tutto è affidato al vertice delle tribù-loro garanzia di funzionamento – e alla loro capacità di interloquire con i poteri globali e i loro intermediari.
In definitiva direi che si tratta di capire quale fosse il sogno di Ulisse: vedere il futuro nel passato, cioè nel ritorno a Itaca, o nella costruzione di un mondo mediterraneo unito grazie al suo mettere a disposizione di tutti le mappe della navigazione e dei commerci, sottraendole ai soli che le conoscevano, gli dei. Nel primo sogno il futuro è il passato, il clan, al quale tornare. Nel secondo l’unione, superando le antiche barriere date dalla paura dell’altro e dall’ignoranza delle rotte lungo cui navigare, proprietà esclusiva del signori del caso.
www.reset.it/blog/tutto-cio-che-e-solido-si-dissolve-nellaria-anche-lo-stato-nazione

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