In un incontro di lectio divina sul Vangelo di Marco ho potuto riflettere su Giovanni Battista indicato non come un comune predicatore convertito e convinto di parlare nel giusto divulgando la sua certezza di fede, ma come “un uomo mandato da Dio”, che anticipa già la risposta a quanti gli chiederanno: «Tu chi sei?». Egli è un uomo mandato da Dio, dice Marco, un predestinato non in senso privilegiato ma un uomo incaricato di “spianare la strada”, di preparare il campo d’azione ad un altro Uomo più importante di lui, a un Dio fatto uomo. Insomma, l’inizio del brano del vangelo di Marco è di per sé già una risposta e un chiarimento circa il ruolo di Giovanni Battista.
Infatti, risulta quasi disarmante la risposta che lo stesso Giovanni proferisce ai sacerdoti e ai leviti inviati dai Giudei per interrogarlo, dimostrando di avere già inteso la loro subdola domanda “Tu chi sei?”; e così egli risponde loro lapidario e senza esitazione: «Io non sono il Cristo». A pensarci bene già dalla descrizione di Marco si intuisce che Giovanni viene sottoposto ad un interrogatorio e non ad una semplice domanda conoscitiva. Ma in vero, quale era il timore dei Giudei e dei loro ambasciatori? La loro domanda assume quasi l’aspetto di una sfida o del timore di un’insidia al loro potere “teocratico”, visto che quello politico amministrativo era in mano ai Romani, e assume un altro senso che assomiglia più a: «Tu chi credi di essere?». Invece, nella risposta di Giovanni non c’è traccia di presunzione, superbia, ambizione o vanagloria, anzi! Egli non dice di essere un uomo investito di un compito importantissimo bensì di essere “voce”, non “una voce” di uomo ma “voce” di uno (non lui) che grida nel deserto. Voce che anticipa l’arrivo di qualcuno che viene nel “deserto” a gridare, non parlare, perché quel deserto è grande e arido. Ma ancora più importante è il senso della parola di quella voce perché è importante la qualità della parola gridata e non il tono della voce. È così che Egli si definisce, aggiungendo anche di non essere degno di privare della sua “sposa” l’Uomo al quale egli ha iniziato a dar voce e che una volta giunto griderà nel deserto di coloro che non intenderanno ascoltare le sue parole.
In effetti, con la sua risposta chiara e diretta Giovanni ci induce a prendere coscienza di noi stessi e a darci una risposta su chi siamo veramente o, meglio, su chi crediamo di essere. In effetti, cosa diciamo di noi, cosa siamo e soprattutto siamo coerenti con quanto diciamo di essere? Oggi che il culto della personalità è dilagante e sempre più tentatore, siamo spinti a proporre di noi sempre più del meglio di noi stessi, lo facciamo anche con i nostri figli dai quali pretendiamo a volte più di quanto le loro reali capacità gli consentirebbero di fare, eppure per noi è motivo di vanto eccedere nelle loro presunte superiorità, che li distinguono in meglio rispetto alla normalità dei loro amici e compagni, obbligandoli ad eccellere per non sentirci noi inferiori a nessun altro.
Giovanni invece, che ne avrebbe avuto ben donde di anteporre la sua persona a tutti coloro che lo ascoltavano si spersonalizza al punto tale da non citare nemmeno la sua diretta parentela con Gesù del quale era cugino diretto, non se ne vanta e dichiara di essere solo “voce”. Egli è un esempio vivente e concreto di sobrietà e concretezza allo stesso tempo, non si abbandona alla tentazione dell’apparire, che oggi ci insidia costantemente; anche quando la folla lo acclamerà egli cederà il passo a suo Cugino, figlio di Dio e Dio fatto uomo, per il quale egli stesso è venuto a “spianare la strada”. È indubbio che Giovanni avesse una personalità forte, una di quelle che creano, come sempre, delle divisioni inducendoci a stare dalla sua parte o contro di lui senza mezze misure. Eppure, egli non divide ma unisce, sottraendo proprio la sua persona al clamore di quell’evento tanto grande che stava per avvenire e al quale egli stesso stava spianando la strada.
Giovanni non soffre di questo suo stare in secondo piano, ne è consapevole, eppure non si amareggia per questo, avendo piena responsabilità dell’importanza del suo contributo, del motivo della sua presenza e del compito a lui assegnato perché tutti coloro che lo avessero ascoltato avrebbero dovuto credere per mezzo di lui quanto egli stesso stava annunciando col battesimo. Egli è testimone di ciò che dice perché vive quello che dice, è un Tucidide del suo tempo, che al contrario dello storico greco non narra di una guerra bensì della venuta di un Dio fattosi Uomo di pace. Giovanni è un testimone coerente e attendibile perché vive al tempo di ciò che sta per avvenire al quale egli stesso ha dato inizio.
È bello l’esempio di Giovanni che riflette la luce come uno specchio riflette i raggi del sole perché ci esorta a “riflettere” e a non temere di parlare degli altri meglio che di noi stessi; a non temere di vestirci di modestia anche quando abbiamo consapevolezza delle nostre capacità in virtù delle quali riusciamo a fare meglio di altri. Giovanni, infatti, non antepone il suo ego davanti a nessuno e tantomeno al compito del quale era stato incaricato, non se ne vanta e non lo usa nemmeno per giustificare il suo modo di predicare: fa quello che gli è stato ordinato da Dio, esegue diligentemente e senza inebriarsi di gloria e potere.
Tuttavia, la sua presenza provoca preoccupazione. Il dubbio sulla sua identità è forte e incute timore: i “commissari religiosi” inviati a investigare su di lui gli pongono la domanda fatidica “Tu chi sei?” in modo indagatorio; ma Giovanni non teme nessuna ripercussione, arriva subito al dunque e dichiara di non essere il Cristo.
Se ci ponessero la domanda: «Tu chi sei?» dovremmo sinceramente rispondere: «Io non sono più degli altri», eppure la nostra tentazione è sempre quella di affermare il contrario ignorando la responsabilità di quello che diciamo. Impariamo da Giovanni Battista.
Pasquale De Santis [storico, Modugno, Bari]