Il Vangelo odierno: In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo:
«Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito.
Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente.
Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo.
Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato» (Mt 23, 1-12 – XXXI TO/A).
Quello sul potere è sempre un discorso molto difficile (ne ho scritto qualcosa nel mio saggio Il potere uno spazio inquieto). Sia quando si tratta con esso come cittadini, sudditi, fedeli e cosi via, sia quando lo si detiene, in qualsiasi istituzione, statale, laica o religiosa che sia. Nel brano Gesù offre una radiografia del potere intellettuale e religioso del suo tempo: gli scribi e i farisei. Non è l’unica volta che il Vangelo affronta il tema e se si è attenti sembra esserci una linea conduttrice che ci porta ad individuare e distinguere le forme sane da quelle corrotte di potere. Qui sono prese di mire le seconde.
Gesù rimprovera a scribi e farisei: di dire e non fare; di vessare i loro “sudditi” e di sentirsi esonerati dai comandi impartiti ad altri; di essere esibizionisti; di esigere il riconoscimento della loro presunta superiorità; di credersi maestri, guide e figure paterne. Una lista molto interessante, cosi profonda e dettagliata da valicare tempi e spazi, tanto da poter dire sono i rischi di degenerazione di chi esercita il potere, in ogni luogo e in ogni tempo. Questo perché il potere, prima di essere un fatto culturale e istituzionale, è un fatto antropologico: esso si esercita con quello che si è e si ha; e in ciò è sempre e ovunque esposto agli stessi rischi. In altri termini ci sono scribi e farisei di questo tipo ancora oggi, in politica, nelle comunità di fede religiosa, nelle istituzioni culturali, nelle amministrazioni pubbliche, nei vari organismi laici e religiosi. Eccome che ci sono. C’erano, ci sono e ci saranno; perché c’erano, ci sono e ci saranno persone che arrivano al potere senza una maturità umana, etica e professionale.
Gesù ci invita a identificarli, a non cadere nelle loro trappole. E lo fa dandoci un criterio: servire. Tuttavia il parlare così facilmente – nelle comunità dei credenti come in contesti laici – del potere come servizio spesso espone i leader e tutti ad una forte tentazione retorica, quasi sempre accompagnata da molta ipocrisia. Si pensi a quanto siano stucchevoli i riferimenti al servizio fatti da alcuni responsabili politici e religiosi che non sono altro che lupi travestiti da pecore o mercenari travestiti da pastori. Tuttavia, la semplice denuncia di queste vistose irresponsabilità non basta. Va compreso, anche, quale nodo antropologico ed etico porta alla formazione di queste deleterie personalità di leader.
Può aiutare il secondo riferimento etico che Gesù offre. Non solo “servire”, ma servire in umiltà, senza montarsi la testa. “Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato”, dice Gesù. E’ tutta una questione di misura: quello che sono e ho, è tutto un dono per fare bene agli altri. Se lo vivo per usare gli altri o spadroneggiare su di essi come gli scribi e i farisei, merito tutti i rimproveri possibili. Senza nessuna scusa. Se invece servo con umiltà sempre e comunque vivrò, come dice la Arendt, un potere dove “le parole non sono vuote e i gesti non sono brutali”; dove le parole non sono usate per nascondere, ma per manifestare se stessi e i gesti non sono usati per “violare e distruggere”, ma per stabilire nuove relazioni e “creare nuove realtà”.
Rocco D’Ambrosio
[presbitero, docente di filosofia politica, Pontificia Università Gregoriana, Roma; presidente di Cercasi un fine APS]