Come in un quadro di de Chirico, l’apertura di Kampai segna la scena. Blocchi o marcature o lapidi offrono uno spessore alla scena come ne Le Muse Inquietanti di Giorgio de Chirico. E proprio tre Muse sembrano legare insieme tutto il racconto. Muse o Parche, dee del destino, che legano, tessono e tagliano il filo della vita di ciascun essere umano. Kampai nasce da un’idea di Nunzia Antonino, Annarita de Michele e Rossana Farinati, tentando di cogliere i nessi antropologici che legano l’essere umano non solo alla sua finitezza, ma soprattutto alla morte, al suo senso e a ciò che c’è o non c’è, dopo. Un legame, squisitamente umano, che tutti noi uomini e donne, di qualsiasi latitudine e tempo abbiamo con la morte o, sarebbe meglio dire, con i morti. Perché se Heidegger ci raccontava il nostro Essere per la morte, tuttavia l’opera si concentra sulla tessitura esistenziale che noi viviamo con i morti e, al tempo stesso, con la domanda di cosa sarebbe la nostra vita senza i morti. Una tessitura, un legame che creiamo con i morti e che vorremmo rimanesse, in qualche modo, nascosto, manifesto, interpretato all’interno di segni divenuti segnali. Segni che attraversano, creiamo, interpretiamo e che, in un certo modo, costruiscono anche la nostra vita. Siamo disseminatori di segni, sembra suggerire la narrazione. Segni di tempo, segni nel tempo, segni che vorrebbero rimanere nel tempo e ingabbiare il tempo. Segni che tracciano lo spazio e che lasciano un profondo senso di inquietudine come le Muse di de Chirico ci suggeriscono. Segni che, dinanzi al tempo che scorre, alla prospettiva della morte, sembrano essere cancellati dalla storia, spazzati via con un colpo di scopa che passa imperterrita su tutto e tutti. La grande spazzola del tempo che cancella tutto, che rimuove ogni cosa, che inquieta con accadimenti che non possiamo neanche programmare e che spazzano via, in un secondo, le persone più care, è il marchio della nostra finitudine.
Una finitudine che è grave, una finitudine che ha a che vedere con la gravità, con uno scendere della pioggia, uno scroscio di gesti che fanno fatica ad alzarsi, che rimangono seduti, che si sdraiano per terra, che vorrebbero vivere in piedi ma rovinano a terra. E le rovine sono uno dei simboli ricorrenti. Che farne? Seppellire tutto? Rimetterle al loro posto? A che pro? Perché? Che senso ha tutto questo nostro rovinare a terra, franare, essere quasi assuefatti dalla gravità? Domande che non trovano risposta nell’opera, ma che lasciano intravedere una nuova prospettiva, un sole che taglia il volto, definisce l’ombra di una presenza nello spazio. Non sapremmo come chiamarla, ma è ciò che trasforma il gesto grave e greve in danza.
Un gesto che spoglia, che mette a nudo il corpo, che lo fa vibrare nei tagli di luce e di ombra. Una danza che trasforma il velo nero che cade pesantemente sul volto delle Muse/Parche/Attrici in un velo da sposa, lanciato e rilanciato in una danza frenetica, in una trasfigurazione del colore, dal nero al bianco. Ciò che toglie gravità al corpo è la danza, non in quanto elimina la gravità, ma trasforma il corpo attraverso il suo essere carnale, nudo, finito. La danza è ciò che trasforma il corpo pesante in un corpo pensante, la carne in un gesto, il finito in un gesto che non finisce, un gesto in-finito. Allora, anche quando l’inquietudine si trasforma in rabbia per un non voler credere, per un ostinarsi a non voler credere, fino a rovinare al suolo, la danza trasforma anche la morte in un gesto comunicativo, in un gesto perpetrato, insistente e consistente, in un rito. Ci basta ricordare i funerali di Agnès Lassalle, l’insegnante uccisa da un alunno a San Juan de Luz, in cui il marito inizia a ballare davanti alla sua bara. La danza trasforma anche quel momento estremamente gravoso da portare in un linguaggio nuovo, in una trasfigurazione del corpo, in un germe di salvezza. Ed è qui la cesura fra rovina e salvezza, fra il franare e il guardare in alto, verso una luce nuova, un biancore da sposa, impossibile da incelofanare e rimuovere come se nulla fosse. Una luce inquieta, una fiamma viva, che fa brillare il corpo grave e finito attraverso segni divenuti segnali. Dove la differenza fra i due è proprio nell’inquietudine della relazione con i morti, nel ritrovare il loro sussurro dentro segni quotidiani, fino a mescolarsi con essi, come Antonio Ligabue che imita il suono animale, per divenire corpo animato. Fra rovina e salvezza, fra gravità e grazia, fra il nero e il bianco, fra la carne nuda e il corpo che danza, si apre l’armonia fra la finitezza umana e ciò che, di noi, non è finito, ciò che non muore, ciò che è infinito in quanto non ancora finito. L’inquietudine del desiderio e della nostra finitezza apre l’abisso che non ci separa, ma ci circonda. Fra la gravità e la grazia.
[presbitero, redattore CUF]