Un giorno, durante un incontro con un gruppo di adolescenti, parlavamo del celebrare e del ringraziare. Una ragazza, durante il giro di condivisione, ringrazia per essersi innamorata di una persona con cui sta condividendo una relazione di fidanzamento. Solo in seguito, attraverso ulteriori condivisioni, riusciamo a comprendere che quella persona con cui quella ragazza aveva stretto una relazione di fidanzamento era un’altra ragazza. Ciò che ha fatto partire la mia riflessione, tuttavia, non è solo la relazione omosessuale o omoaffettiva di queste due ragazze, quanto l’utilizzo del termine “persona”. Utilizzo che, a mio parere, risulta ancora oggi profondo e provvidenziale allo stesso tempo. Infatti, è proprio nell’utilizzo di questo termine che consiste il passaggio da una visione omo- o etero- sessuale ad una relazione omo- o etero- affettiva. Tuttavia, prima di compiere questo passaggio, occorre prendere in considerazione la dimensione della sessualità, con il relativo controllo e disciplinamento esercitato su di essa.[1]
La pratica della sessualità è da sempre oggetto di preoccupazione morale in quanto ha a che vedere con la vita e con la morte, con quella che Foucault chiama politica della vita, biopolitica. Ampie sono le riflessioni riguardanti il tema della biopolitica e del biopotere come disciplina della sessualità, in uso e in vigore ancora oggi. Tuttavia, ciò che ci riguarda in questo intervento non è la disciplina della sessualità, quanto la considerazione di come tale disciplina riguardi soltanto la sessualità piuttosto che l’orizzonte più ampio dell’affettività. Iscrivere la sessualità nell’ambito dell’affettività significa permettere alla sessualità di fuggire alle sole pratiche di disciplinamento che chiedono continuamente di decifrare, catalogare e schematizzare la sessualità. Parlare di sessualità, di omosessualità come di eterosessualità significa, nel regime del governo della vita, in una sola parola, gerarchizzare il discorso sull’amore. Utilizzando il vocabolario greco, ci hanno sempre insegnato che l’amore si divide in eros, filia e agape. Quando si parla di eros si intende un rapporto basato sull’utile. Nella Grecia classica, l’eros è visto come rapporto fra due sessualità teso alla conservazione della specie, per cui necessita di essere particolarmente vigilato e normato. Invece, per quanto riguarda la filia, il rapporto non è più erotico in quanto non fondato sull’utile ma sul piacere fra pari, sull’amicizia. Infine, l’agape è l’amore più alto in quanto non si basa semplicemente sul legame fra due persone ma ha carattere universale e comunitario. Come fa notare Foucault, la gerarchizzazione dell’amore è data non dal riconoscimento di una persona, ma dal maschio eiaculatore che feconda la femmina. In base alla vicinanza o meno a questo paradigma, abbiamo una gerarchizzazione dell’amore, in base all’utile e al meno utile. In questo senso, allora, l’eros sembra essere l’amore più basso, spesso mischiato, assimilato e confuso con la pornè. La filia è l’amore non piegato all’utile, ma all’amicizia fra uomini alla pari, mentre l’agape, introdotto dal cristianesimo, è l’amore più alto in quanto rivolto a tutti. Per gli antichi greci, come sappiamo, il concetto di amore omosessuale rientrava nell’amore-filia in quanto amore fra pari e completamente disinteressato, da non confondersi con la pratica sessuale dell’uomo libero nei confronti dello schiavo, il quale rimane sempre e comunque un oggetto da usare ed abusare, anche sessualmente.
La gerarchizzazione dell’affettività e della sessualità, dunque, crea un rapporto gerarchico non solo nell’amore ma anche fra gli individui, in termini di disparità e disuguaglianza, regimi di verità e scarti che non si adattano al paradigma dominante. Se ci concentriamo sulla nostra esperienza d’amore, sulle varie relazioni d’amore che viviamo, ci possiamo accorgere che queste non rientrano mai in uno schema gerarchico, in uno schema di riconoscimento schematico, in quanto hanno a che vedere con le persone. Ed è su questo punto che la nostra riflessione sull’amore si intreccia con il concetto di persona e di affettività. Infatti, passando in rassegna le relazioni che viviamo, ci possiamo accorgere di come eros, filia e agape altro non siano che comunicazioni dell’amore stesso, riversamenti continui dell’amore nell’amore. L’eros non è solo un rapporto di utilità o di piacere, ma a che vedere con la filia, basta guardare le relazioni fra fidanzati in cui dopo un primo tempo di desiderio e di passione, arrivano ad una stabilità affettiva ed emotiva, fatta anche di frequentazione e di inutilità. E in eros c’è anche agape altrimenti l’amore sarebbe solo una realtà privata e chiusa su se stessa, incapace di fare i conti con i sacrifici e le realtà sociali contemporanee. Così, in filia c’è sempre una dimensione erotica, fatta di passione, di conquista, di complicità, di desiderio dell’amico e per l’amico, anche nella differenza sessuale. Come c’è anche un amore comunitario, agape, nella realtà dell’amicizia, altrimenti sarebbe semplicemente qualcosa di virtuale e immaginifico. Infine, non c’è agape senza eros, senza una passione per gli esseri umani, di qualsiasi estrazione e di qualsiasi latitudine, perché altrimenti l’agape sarebbe solo rivolto a gruppi chiusi e identitari. Così come non ci può non essere filia in agape, amicizia all’interno della comunità, perché si rischia che l’amore per tutti gli uomini e le donne rimanga solo un vago intento, senza prossimità. Insomma, all’interno dell’amore non c’è una gerarchia di importanza ma persone che provano affezione l’una per l’altra comunicando al tempo stesso eros, filia e agape ed è questo che le rende «persone». Non quindi una gerarchia secondo una narrazione dominante, ma una sintassi delle persone, a immagine e somiglianza della Trinità.[2]
Non si tratta, dunque, di comprendere l’amore in termini di gerarchia, ma in termini di sintassi, ovvero di co-ordinamento fra persone. È questo ciò che pone una ermeneutica affettiva all’amore che proviamo, ciò che ci fa traslare dall’omo- o etero-sessualità all’omo- o etero- affettività in cui ciò che conta non è la realtà sessuale legata all’altro, ma l’unificazione con l’altro, l’integrità dell’altro che mi è dinanzi. In questo, infatti, consiste l’affettività come considerazione dell’unicità dell’altro o dell’altra non solo in termini di differenza sessuale, ma come complessità unificata che mi è dinanzi. Una unità dell’alterità e con l’alterità che mi permette di riconoscere anche me stesso in quanto «persona», in quanto essere unificato e unificante, senza cercare l’assimilazione o la fusione con l’altro. Ecco perché il paradigma interpretativo della sintassi, può offrirci una ermeneutica dell’amore in termini personali, ad immagine e somiglianza delle Persone trinitarie, dinanzi a cui riconosciamo il nostro posizionamento. È dinanzi all’altro e all’altra che riconosco me stesso come persona binaria, maschio, uomo, eterosessuale, cisgender e celibe, senza fare di questa una posizione dominante nei confronti dell’altro o dell’altra, ma semplicemente il riconoscimento di chi sono per l’altro e l’altra, di chi sia l’altro e l’altra per me, come persona da amare.
[Presbitero, Redattore CUF, Bisceglie]
[1] A tal proposito, non possiamo non chiamare in causa Michel Foucault scrive: «Si vede allora che l’importanza accordata all’atto sessuale e alle forme della sua rarefazione non dipende solo dai suoi effetti negativi sul corpo, ma da ciò che esso è in se stesso e per natura: violenza che sfugge alla volontà, dispendio che logora le forze, procreazione legata alla morte futura dell’individuo. L’atto sessuale è fonte d’inquietudine non già perché è male, ma perché turba e minaccia il rapporto dell’individuo con se stesso e la sua costituzione come soggetto morale; porta con sé, se non è regolato e distribuito come si deve, lo scatenamento di forze involontarie, l’indebolimento dell’energia fisica e la morte senza discendenza onorevole». M. FOUCAULT, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, Feltrinelli, Milano 2015, p. 140-141.
[2] Riprendiamo il termine di sintassi da Jean Paul Lieggi: «Quello della sintassi è un paradigma che non solo richiama la correlazione incomparabile di unità e molteplicità, ma getta anche una luce particolare su quel paradosso di difficile comprensione a cui alludeva Hans Urs von Balthasar, che consiste nel riuscire a mostrare come vadano rispettate entrambe le realtà: l’ordine delle processioni e l’unità di rango delle persone. È un paradigma che mostra efficacemente come, nel mistero trinitario, il momento «syn-» non sia separabile dalla taxis. Un’attenta formulazione della dottrina trinitaria, infatti, non può e non deve mai trascurare la taxis, in quanto è proprio essa che ha rappresentato, sin dai primordi della riflessione teologica trinitaria, il concetto fondamentale per poter cogliere la distinzione personale in Dio». (J. P. Lieggi, Teologia trinitaria, EDB, Bologna 2019, p. 287).