Nei giorni scorsi l’Istat ha registrato una consistente riduzione nel numero dei volontari e, come se non bastasse, non verranno spese tutte le risorse disponibili per il 5 per mille, dato che molti cittadini hanno rinunciato a destinarlo agli enti non profit. Si tratta di dati preoccupanti che è necessario contrastare per il bene delle nostre comunità. Forse, però, prima di concentrarsi sulle tecniche di marketing o sui modelli gestionali, potrebbe essere opportuno riflettere se le cause di questa disaffezione non siano più profonde e non riguardino l’identità stessa del terzo settore, un settore che forse troppo a lungo si è lasciato cullare dall’illusione che fosse sufficiente desiderare di cambiare il mondo per avere l’effetto desiderato. Dimenticando che le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni, si è pensato che bastasse agire e che ogni riflessione sul perché fosse in realtà inutile, astratta e tutto sommato dannosa. Se per lungo tempo si è pensato che il ruolo del terzo settore fosse quello di compensare i fallimenti dello Stato e del mercato, invertendo così il principio di sussidiarietà, il quale stabilisce che è lo Stato a dover intervenire a sostegno della società e non il contrario; oggi sembra che ci si debba concentrare esclusivamente sull’impatto. Il compito del terzo settore sarebbe quello di erogare nel modo più economico, efficace ed efficiente quei servizi che stato e mercato non vogliono o non possono produrre. Solo così, si pensa, si potrà migliorare la nostra società.
Se però misuriamo gli indicatori di malessere che caratterizzano la società del benessere, dobbiamo chiederci se questa sia veramente la strada per creare un mondo migliore. Siamo veramente sicuri che una società in cui dal 1945 il PIL pro capite è cresciuto 13 volte, che ha fatto dell’efficienza il suo mantra, che vede nascere sempre nuovi servizi, debba proseguire su questa strada? Se, per fare un esempio, malgrado gli investimenti, i progetti, le tante lodevoli iniziative promosse dal terzo settore e dalla filantropia, il sistema educativo non sembra affatto migliorare, siamo sicuri che la strada da percorrere sia quella di aumentare tali investimenti, progetti e iniziative o non sia invece necessario sviluppare un altro approccio?
Un tempo se mi mancava un uovo, andavo dal vicino e me lo facevo prestare. Oggi chiamo un servizio di consegna a domicilio. Si tratta di un servizio certamente utile che contribuisce alla crescita economica, ma che genera importanti costi sociali. Quel dover andare dal vicino a chiedere un uovo, non solo permetteva di risparmiare i costi della consegna, riducendo l’inquinamento, ma stabiliva e rafforzava i legami sociali, permetteva alle persone di aiutarsi reciprocamente, in altre parole, contribuiva a rendere la vita più umana.
Questo esempio dovrebbe spingerci a domandarci se questo proliferare di servizi, il cui fine è permettere ai singoli di soddisfare le proprie esigenze nella più completa autonomia, invece di generare benessere, non contribuisca a quel processo di isolamento e di disumanizzazione che caratterizza la nostra società. Dobbiamo quindi chiederci se il vero ruolo del terzo settore sia quello di contribuire a questo processo o non debba essere, come afferma la nostra Costituzione, quello di aiutare i singoli ad affermare la propria personalità, ossia la capacità di riconoscere ed amare ciò che è giusto, bello e buono.
Non si tratta di mobilitare risorse con cui realizzare nuovi servizi, ma di dare alle persone delle concrete opportunità per testimoniare la propria dignità. In questa prospettiva, riscoprire il dono non come mezzo per raccogliere risorse, ma come una delle modalità più efficaci per rendere umano l’umano, può aiutarci a superare questa crisi. Progetti e programmi non devono essere il fine del nostro agire, ma semmai i frutti, da cui potranno riconoscerci.
*Presidente Associazione Promotori del dono