La missione vaticana cui ha accennato Francesco tornando dall’Ungheria e la visita in Vaticano del presidente Zelenski indicano a mio avviso che Francesco sta cercando, con urgenza – posto che l’ONU non sta combinando più nulla – una parte terza in grado di mediare sull’Ucraina: sia la Cina, se davvero lo vuole, sia il “gruppo africano” – non importa.
Penso questo, perché, per Francesco, la pace non è un’ideologia e quindi non è mai contro qualcuno, bensì è una realtà prossima a cui tutti nel mondo possono dare forma. Tanto che pure il pacifismo ideologico – quello di una parte militante contro un’altra ritenuta, da sempre, demoniaca – può produrre solo una resa carica di rancore, ma non la pace.
Cerco di spiegare la mia comprensione di Francesco.
Il dominio dell’etnia
Una parola sembra dominare di nuovo nel tempo presente: etnia. Rappresenta la via di fuga verso il passato ai molti impauriti dalle potenzialità – offerte ma non effettivamente esplorate – della globalizzazione, ormai trasformata in colonizzazione finanziaria. La deriva neocolonialista che non ha cancellato la povertà delle masse, pur avvantaggiando, sopra tutte, le potenze della Cina e dell’India, ha indotto evidentemente molti a rivolgersi all’indietro, ossia a cercare rifugio nella chiusura identitaria, etnica e nazionalista. Di nuovo.
Da ciò le malattie croniche di un sistema che genera continuamente nuovi pericoli, con poteri multinazionali dotati di bilanci superiori a quelli di Stati di media grandezza ovvero l’opposto rimpianto dei confini ben chiusi, entro cui rifugiarsi nelle identità etniche pure e, quindi, razziste. È il bivio mortale tra questo globalismo e questo localismo.
Il fatto che l’attuale sfidante di Erdogan in Turchia, Kilicdargolu – a sproposito definito il Ghandi turco – invochi l’espulsione di ogni profugo, non solo dei siriani, pur di ottenere voti, ci dice quanto questo sia vero.
Queste due visioni del mondo in guerra sono, allo stesso modo, in guerra con l’idea fondamentale di fratellanza portata ovunque da Francesco, unico simbolo “bianco” della pace rimasto in tutto il mondo; l’unico che continua a vedere le deformazioni sopraffattrici della globalizzazione reale, ma per correggerle e scongiurare il ritorno all’identitarismo etnico, chiuso, xenofobo.
Seppur superficialmente, voglio ripartire dalle cause del conflitto in Ucraina.
La guerra in Ucraina
L’espansionismo della Nato perpetua una visione unipolare del mondo e l’incapacità – per dimenticanza o per negligenza – di coinvolgere Mosca nel nuovo ordine – multipolare – mondiale. È pur vero però che molti Paesi – ex satelliti di Mosca – hanno visto nell’espansionismo militare occidentale una protezione alle loro, da poco, conseguite libertà.
Oggi vediamo come una maggiore disponibilità a creare meccanismi plurali di garanzia e di sicurezza, avrebbe giovato a tutti. Farlo avrebbe potuto frenare, sul nascere, le pretese e le tappe della riconquista dell’imperialismo russo: la campagna cecena, poi quella georgiana, poi quella di Crimea, poi quella siriana – con bombardamenti che, al confronto, quelli attuali sembrano quasi leggeri – poi quella ucraina. Tutto questo poteva essere probabilmente prevenuto con maggiore fermezza e contemporanea disponibilità a offrire garanzie di sicurezza a tutti.
Ho letto la tesi per cui Russia e Nato potrebbero essere state prese dalla spirale del gioco della reciproca dissuasione. Non mi sembra una teoria peregrina. Non è possibile assolvere uno solo e non è possibile condannare uno solo nell’attuale disastro. Non ha forzato la mano evidentemente solo la Nato. Anzi: Mosca ha preteso, in crescendo, sovranità limitate per i suoi sventurati vicini. Incapaci di offrire garanzie, si è trovata sola di fronte all’espansione della Nato. Chiaramente non potevano essere queste le premesse del mondo migliore.
Quando la storia ha dimostrato che Washington “non aveva tempo” da dedicare a Mosca, Putin ha cominciato a scalpitare. La sua strategia è stata sottovalutata. Con la sua energia fossile ha costruito un santuario di pressione economica sull’Europa e quando è riuscito a ottenere ben 650 miliardi di dollari di surplus finanziario, si è sentito sicuro di avere l’Europa in pugno.
Ha poi visto l’uscita di scena della comprensiva Angela Merkel e gli esercizi militari della Nato estendersi sino alla palestra Ucraina. Nel 2021 – per lui – è arrivata l’occasione di strappare: l’ora di giocare – ancora e sempre – la carta etno-nazionalista, quella che sostituisce la cittadinanza con l’appartenenza atavica del supposto gruppo etnico, quello puro.
La deriva aveva già dimostrato la sua forza distruttiva nell’ex Jugoslavia: un tragico campanello d’allarme sul totalitarismo in arrivo dai diversi e opposti suprematismi; ideologia centrifuga che vede nello straniero il nemico e quindi prepara esclusione e discriminazione.
Ma l’etnonazionalismo non è che la risposta neofascista globale a una globalizzazione governata in modo cieco e arrogante da parte della grande finanza. Si è visto nel mondo saldarsi un fronte anti/globalista che per essere sconfitto va per prima cosa capito.
L’ideologia di Putin
Diversi anni fa, non recentemente, Putin ha detto che il muro in via di erezione tra Ucraina e Russia equivaleva all’uso di armi di distruzione di massa, perché avrebbe separato un unico territorio, di un unico gruppo etnico, di tradizioni antiche e immodificabili. Dall’idea ha desunto che tutta l’Ucraina fosse parte della santa madre Russia, che tutti i russofoni debbano rimanere a vita russi nell’anima e che, quindi, l’Ucraina non esista.
Queste sue certezze si sono rivelate manifestamente infondate: perché molti russofoni si sono schierati contro la Russia e i suoi metodi di guerra e il popolo ucraino ha mostrato di esistere come tale. Sono i popoli, non gli accademici – non i politici megalomani – a decidere cosa esiste o meno.
Ma l’etnonazionalismo scatenato da Putin contro l’Ucraina ha fatto comunque presa, perché era già molto presente in un mondo impaurito dalla globalizzazione reale. Questa sta portando al fallimento di interi Stati che non possono ripagare il loro debito internazionale, non solo per impresentabilità dei loro governi, ma anche a causa delle regole da rapina – consentite da Washington -, ai famosi hedge-found che speculano a prezzi da usura sui debiti del Terzo e Quarto Mondo.
Umanesimo e globalizzazione
Ritorno al punto: l’unico che ha difeso la prospettiva di una globalizzazione rispettosa delle diversità – non uniformante e appiattita dalla grande finanza – è Francesco. Difatti sia i fautori della globalizzazione pirata, sia i promotori degli etnonazionalismi ce l’hanno con lui.
Sia l’unipolarità finanziaria che l’etnonazionalismo minacciano la democrazia nel mondo: lo dimostrano gli slogan di Trump, di Bolsonaro, di Erdogan; lo dimostra la sottile politica imperiale “persiana” dell’Iran dei mullah e il sostanziale fondamentalismo dell’indiano Narendra Modi.
L’etnonazionalismo è stato alla base non solo delle citate guerre balcaniche, ma anche del genocidio rwandese. L’etnonazionalismo usa i disastri della globalizzazione reale, le sue cecità liberiste, per impedire la trasformazione poliedrica della globalizzazione, quella che Francesco ha indicato come la vera speranza, sin dall’inizio del suo pontificato.
Gli etnonazionalismi sono ben diffusi anche in Europa. Chi vede nei profughi gli invasori, di fatto piomba nella cultura di Milosevic. L’aggressione putiniana ha forse reso, in Europa, meno opportuno lo sfoggio etno-nazionale, ma la signora Le Pen e, in buona misura, Orbàn non si sono lasciati tanto scoraggiare, mi pare.
Ecco perché io dico che questa guerra, in particolare, è una guerra contro Francesco, contro ciò che Francesco rappresenta. Può apparire un’affermazione “troppo grossa”, ma, nella sostanza, per me, è proprio così.
Putin argomenta il suo etnonazionalismo di stampo totalitario, zarista, mobilitando i russi contro l’Occidente, l’eterno prevaricatore ansioso di imporre il suo ordine mondiale e la sua cultura. C’è naturalmente del vero in questo. La postura militare rafforza l’etnonazionalismo russo, o slavo, come è già successo agli arabi, che, umiliati nelle loro sconfitte, hanno covato per anni l’ideologia del riscatto, arrivata sino a Bin Laden.
La filiera etnonazionale russa che dovrebbe portare Mosca sino a Leopoli e magari sino al Baltico nel nome della compattezza del Russki mir è la stessa idea accarezzata da Erdogan con il suo sogno di unione turcofona fino alle porte di Pechino, o dai mullah che dall’Iran vogliono rifare l’impero persiano fino al Mediterraneo. Ma anche l’Occidente dimostra da un lato paura e chiusura e dall’altra smania di potenza.
Pensare un ordine multipolare richiederà molto tempo, se una trasformazione della globalizzazione non decolla: come sradicare la scorciatoia etnonazionalista? Con le armi ovunque? Francesco – a differenza di Kirill – non si sente investito dal messianismo cristiano che pretende di salvare il mondo persino con le armi. Non ci sta a fare il “chierichetto di Biden”, neppure per la parte di buona ragione che l’Occidente può avere. La sua Chiesa è davvero universale, aperta, “in uscita”: la sua Chiesa non può e non vuole tornare ad essere la Chiesa dell’Occidente.
Il tentativo di Francesco
Il tentativo, persino ostinato, di Francesco di disarmare – e risanare – l’etnonazionalismo russo non vuol dire affatto, quindi, che “gli dà ragione”, ma che vuole provare a togliergli dal cuore l’odio con cui i vari Dugin, persino il patriarca e pure tanti vescovi e preti – ma non tutti – stanno avvelenando la cultura russa e la fede cristiana in Russa, che sicuramente c’è.
A me sembra che Francesco cerchi in tutti i modi di rompere la sindrome da assedio che Putin sta usando, con la sua propaganda pervasiva, per sottomettere i russi. E lo fa dicendo: “Nessuno odia i russi: vi prego, discutiamo di tutto; si può!”.
Per ogni mediazione politica le strade mi sembrano due: rispetto del diritto internazionale e garanzie di sicurezza per tutti. Il dialogo interreligioso può avvicinarci a questo sogno, perché comporta il riconoscimento che il pluralismo è parte del disegno divino, che ci ha fatto diversi.
Tutti i leader etnonazionalisti invece dimostrano un sinistro interesse per la religione fondamentalista, quale ancella del loro potere. Francesco rappresenta l’alternativa, perché vuol parlare con tutti. La globalizzazione finanziaria e iperliberista invece trasforma sé stessa in una religione globale.
La corsa degli opposti estremismi – e pure la bagarre tra bellicisti e pacifisti – è contro la fratellanza umana universale che lui tiene sempre davanti: né può consegnare l’aggredito all’aggressore, né può condannare il colpevole a una solitudine senza rimedio.
A Francesco vanno bene anche le iniziative cinesi e africane – di cui forse lui è a maggiore conoscenza di quanto possiamo essere noi – perché c’è bisogno di quanti più mediatori terzi, che abbiano capito e siano pronti ad entrare nella sua ottica, propriamente religiosa: propriamente terza.
http://www.settimananews.it/informazione-internazionale/la-diplomazia-di-papa-francesco/
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