“E l’ho visto, camminava per strada/ bomber alfa e la testa rasata/ noncurante dei gatti bagnati e della polizia / innocente prodotto randagio di periferia». Così cantavano Giancane e Lucio Leoni nella loro Adotta un fascista, un brano preparato per il format Kahbum, dove la sfida è di comporre una canzone su un tema a scelta in un’ora di tempo. Sarà forse in questo lasso di tempo che i due autori hanno pensato bene di evidenziare un modello antropologico che vaga per le periferie urbane: vestito con un giubbotto bomber nero, con la testa rasata, con il saluto romano sempre pronto noncurante dell’apologia di fascismo, come un cristo di nero inzuppato il cui grido di aiuto non riceve la giusta attenzione.
Un modello antropologico che fa riflettere più che destare rabbia, perché viene dipinto non come un mostro o come un folclorico apologeta del Ventennio, ma come un disperato che ha fatto del (neo)fascismo, il proprio segno di appartenenza. Non desta stupore se questo modello antropologico sia stato visto più e più volte dai due autori, essendo di origine romana e frequentando spesso le periferie della Capitale.
Spesso, quando sentiamo parlare di fascismo o di neofascismo, immediatamente ci assale un sentimento di paura, di rabbia, di odio. In una mia recente esperienza, ho avuto modo di notare come si denunci il fascismo per la sua violenza e, al tempo stesso, non si lesina utilizzare violenza proprio nei confronti di coloro che dicono di essere fascisti. Violenza che richiama violenza, fascismo che contagia anche coloro che si professano antifascisti, autoritarismo a cui si deve rispondere solo con l’autoritarismo. Eppure, il neofascista raccontato da Giancane e Lucio Leoni, più che odio sembra destare pena, tanto da volerlo adottare, come un bambino mai nato, come un innocente prodotto randagio delle periferie.
Perché, paradossalmente, il neofascismo non si sviluppa nei centri di potere o nelle roccaforti della borghesia o fra i grandi latifondisti come è avvenuto durante gli anni del Ventennio Fascista, ma nelle periferie, in modo particolare in quelle in cui si sviluppa l’anonimato, l’alienazione, la mancanza di comunicazione e di comunità. Le periferie, infatti, non sono più luoghi che si realizzano o si strutturano in riferimento ad un centro, ma microorganismi in cui molto spesso vige una sorta di disgregazione sociale, di inespressività comunitaria. Se fino agli anni Ottanta e, in modo particolare con Pasolini e molti altri autori, abbiamo avuto una descrizione delle periferie che ha dato forma e appartenenza ad un luogo, oggi le periferie raccontano di stenti, di marginalità, di lontananza dell’amministrazione pubblica.
Da ruolo centrale nel dibattito pubblico, le periferie sembrano essere state abbandonate a se stesse, in una complessità amministrativa e burocratica delle città che vede molta politica incapace di far fronte alla pluralità di problemi e di occasioni che possono offrire. Per quanto riguarda il mondo politico, poi, ci occorre sottolineare una clamorosa abdicazione della Sinistra in relazione alle periferie della città. Abdicazione che ha visto il serpeggiare di un bisogno forte e radicale di appartenenza ad un sistema identitario, capace di formare gruppi che si prendano cura del territorio. Abdicazione in favore del centro da parte della Sinistra, che ha visto la Destra intercettare le problematiche della periferia in termini identitari, sovranisti, xenofobi.
In mancanza di solidarietà, di scelte pubbliche in favore della gestione dell’edilizia residenziale, di politiche di inclusione e di riscatto. Il bisogno emergente nelle periferie è quello di appartenere a qualcosa e di difendere l’appartenenza anche e soprattutto attraverso la violenza contro l’invasore, un nemico. In questa direzione si sviluppa quello che chiamiamo neofascismo, non solo come riferimento alla fase storica del fascismo in Italia, ma anche come supremazia dell’identità italiana secondo quella precisa e rigorosa forma ideologica, come se essere italiani equivalesse all’essere fascisti.
Tuttavia, se l’identità neofascista serpeggia fra il bisogno di identità e l’anonimato delle periferie, ci sono anche segnali incoraggianti di creazione di comunità nelle periferie, di azioni informali e non legate alla Sinistra istituzionale o della ZTL, che sembra preferire i centri urbani e le classi medio-alte per fare propaganda elettorale. Gruppi, collettivi, sottoculture e controculture che sviluppano un senso di meticciato più che di identità, un senso di periferia solidale con tutte le periferie del mondo, con tutti gli emarginati e tutti i ghettizzati. Un senso di solidarietà globale con gli abitanti delle periferie del mondo, che potrebbe fungere da innesco sociale al miglioramento solidale delle loro condizioni. Perché il neofascismo nelle periferie non si combatte con l’odio, ma con la costruzione di comunità, non con la violenza ma con la compassione di chi vede in quelle teste rasate degli orfani, innocenti prodotti randagi di periferia.
[sacerdote, redattore Cuf, Bisceglie, Bari]